Senigallia

Un’infermiera di Senigallia: «L’emergenza Coronavirus ci cambierà nel profondo»

Nel reparto di rianimazione dell'ospedale senigalliese il personale si è riorganizzato per far fronte all'emergenza sanitaria in corso. Ecco il racconto di Katiuscia Pederneschi

L'ospedale di Senigallia: il Tribunale del malato "C.Urbani"
L'ospedale di Senigallia: il Tribunale del malato "C.Urbani"

SENIGALLIA – Camice, mascherina ffp3, occhiali, visiera, doppio guanto e copriscarpe. E poi tanto gel e prodotti disinfettanti. Ormai sono questi gli oggetti con cui fanno i conti ogni giorno gli operatori del reparto di rianimazione dell’ospedale di Senigallia. Dove non è uguale alle altre aree anch’esse dedicate ai pazienti covid: qui il personale si è riadattato e riorganizzato anche autonomamente per far fronte alle aumentate emergenze. Sempre pieni di cose da fare e di corsa, ma con tanto calore da parte delle persone che dà quella spinta in più per andare avanti anche in tempi di coronavirus.

A spiegare la situazione che si vive tra le mura di uno dei reparti più importanti per una comunità è un’infermiera che vi presta servizio da anni, Katiuscia Pederneschi. «Qui ci siamo adattati in base alle nostre esigenze – spiega Katiuscia – in assenza di indicazioni specifiche né delle risorse adeguate da parte degli organi competenti. I locali che non erano strettamente necessari li abbiamo riorganizzati per creare una zona filtro che potesse rendere la rianimazione davvero isolata».

Un locale è stato adibito al cambio, dove viene fatta particolare attenzione alla vestizione, sia per non infettarsi, sia per non sprecare i dispositivi che iniziano a scarseggiare. «Gli occhiali non li gettiamo ma li disinfettiamo per riutilizzarli. Per qualcosa ci siamo informati persino attraverso la piattaforma Youtube». Come pin tempo di guerra, non si butta ciò che può essere riusato.

Katiuscia Pederneschi
Katiuscia Pederneschi

Anche per quanto riguarda la turnazione, sono stati decisi degli orari suppletivi per poter aumentare di un’unità ogni fascia oraria (mattina, pomeriggio, notte). Uno sforzo corale di tutta l’équipe per garantire, tramite i rientri, un numero più adeguato, anche se ancora non del tutto sufficiente, alle mansioni da svolgere. «Nonostante questo facciamo fatica lo stesso» confessa amareggiata.

I pazienti sono cinque, ma con la riorganizzazione in atto a causa dell’emergenza coronavirus, a seconda delle giornate ed esigenze, possono essere prese in cura altre due persone con posti nelle sale operatorie, proprio perché ambienti sterili. Come oggi, 25 marzo (dato Gores). «Le persone in rianimazione non sono coscienti – spiega – sono sedate, è come se dormissero. Non possono parlare con il personale, non possono vedere i parenti nemmeno tramite uno smartphone in videochiamata, come avviene per altri reparti e in altri ospedali in tutta Italia. E purtroppo, quando muoiono, se ne vanno da soli senza familiari a tenere loro la mano».

E la situazione a livello psicologico? «C’è tanta frenesia perché facciamo tutto nel miglior modo possibile ma anche tanto stress perché lavoriamo praticamente senza pause, siamo sempre pieni di cose da fare e di corsa». Ne risente il rapporto sia con colleghi che con i familiari ai quali non riescono più a fare assistenza psicologica. «Abbiamo perso il contatto anche con tutto quello che rappresentava un po’ l’identità delle persone che curiamo, non ne conosciamo la storia: manca il rapporto con loro».

Data questa situazione, è facile comprendere come anche un piccolo gesto sia più che gradito: grande è il sostegno che arriva al reparto rianimazione dall’esterno. «C’è chi dona dei materiali, chi porta del cibo per il pranzo o una crostata per il dolce. Per questo vorrei ringraziare tutti e ricordare a tutti i familiari dei pazienti di rianimazione che ce la mettiamo tutta e ci prendiamo cura dei vostri cari. Questa situazione cambierà tutti noi, ne sono convinta, nel profondo».

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