Mi racconto

Io resto a casa (purtroppo)

Ho appena telefonato al Centro di salute mentale ma, mi hanno risposto, possono al momento prendere in carico solo casi urgenti. [...] Alla fine i sogni sono tanti, ma tra il dire e il fare, si sa, c’è di mezzo Covid-19. Intanto mi concentro sulla scrittura. «Non sono la mia malattia», come diceva Nietzsche

Elisa

ROVIGO- La sala fumo del reparto psichiatrico di Trecenta è un gineceo dove si aprono letteralmente le cateratte del Cielo per il profluvio di parole pronunciate da ognuna, tutte intente a raccontare le loro storie. La stanza è piccola e angusta, ma per fortuna è stata dipinta di un blu pervinca molto rilassante per gli occhi. Ci sediamo tutte attorno a un tavolino, dove ognuna appoggia i propri cellullari nelle due ore che si possono tenere. C’è anche un posacenere, sempre colmo. Tanto che, a turno, ci alziamo e lo andiamo a svuotare nel cestino.

Noi, ragazze di psichiatria, quasi tutte entrate per tentato suicidio, senza alcuna stima e con la stigma degli altri addosso, tra una sigaretta e una visita dell’infermiere per la terapia, parlavamo di tutto, ma soprattutto di uomini. La finestra, aperta per far uscire l’odore di fumo, ha le sbarre. Come, del resto, in tutte le stanze del reparto. Ma noi non ci facciamo neppure più caso. R. è rabbiosa per essere stata lasciata dal marito, con un figlio a carico, per una che ha vent’anni meno di lei. P. è tormentata dalla tristezza, perché il suo nuovo amato è sposato in casa e a lei non toccano che le briciole.

Ma l’amore, quindi, è questo? Per noi, che la ascoltiamo, significa fare come il cane che attende gli avanzi, fiutando voracemente intorno a tutte le sedie dei commensali. Le consigliamo di troncare, ma lei risponde che ha già una figlia, non chiede altro, almeno è un bell’uomo e le sta vicino quando può. Per esempio, è venuto a trovarla a Trecenta ogni giorno. Anzi, racconta che mai nessun altro l’ha trattata così da principessa. M. è rimasta vedova a soli 38 anni e non sapeva come mantenersi, fa un part-time e di pensione di reversibilità del marito le tocca poco. A. si dispera perché è single da tanto tempo, e aggiunge, tra un tiro di bionda e l’altro, che in giro sono rimasti sono gli scarti delle altre, e che i più interessanti sono ormai sposati o fidanzati, meglio stare sole che prendersi il primo che capita, bisogna selezionare a fondo. L. è completamente esaurita e continua a piangere per uomo che non la bada più, «eppure stavamo bene insieme e anche il sesso era magico con lui. Dove ho sbagliato? Il punto è che meno mi cerca e più lo desidero».

Tutto questo dolore è amplificato dal fatto di essere recluse, di non poter andare neppure giù a prenderci un caffè alle macchinette senza un infermiere che ci accompagni. «Mia nonna diceva che sono le più brutte a sposarsi per prime», controbatteva M. a L., e l’altra le dà agione, che noi ragazze della psichiatria siamo tutte belle a modo nostro e non si capisce perché gli uomini che ci piacciono non ci vogliano mai. «Tu invece ti butti troppo via», mi apostrofa P., «chatti con tutti e dai loro corda, chissà che impressione dai loro. Gli uomini più te la tiri e più si prendono». Credo sia proprio vero, e d’altra parte c’è il detto «l’unico vero amore è quello impossibile».

Uno dei miei drammaturghi preferiti, Schiller, sosteneva nel don Carlos, che «conosce l’amore solo chi ama senza speranza». Inutile aggiungere che l’ho amato per il suo pessimismo cosmico: per lo stesso motivo, ho adorato Tucidide nella descrizione della peste di Atene, Lucrezio nel De Rerum natura, tutto Schopenhauer, tutto Leopardi e il Verga dei Malavoglia. Ma tutte noi, che fingiamo di tirarcela , abbiamo una parte fisica e carnale da soddisfare: ma il confine tra sesso e relazione è un crinale sottilissimo.
Sognare è bello, anche dissociarsi, e io sono brava a farlo, ma alla fine bisogna tornare alla realtà. In realtà la follia ci fa la posta, a noi ragazze della psichiatria.

Il Coronavirus, o meglio, la psicosi legata al Coronavirus, ha fatto chiudere la palestra dove mi alleno quasi ogni sera, l’unica fonte di endorfine sane quotidiane. Tutto è chiuso. Le scuole, pare le riapriranno il 3 aprile (mia nipote, quattordicenne, è al settimo cielo, così può stare col moroso), i teatri, i cinema, le parrucchiere, i bar, i ristoranti. In giro si vedono scene da The Day After, il film di Edward Hume dell’83 che descrive lo scenario ipotetico di una guerra nucleare  tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e dove le conseguenze sono devastanti: tutti sterminati. E infatti, la sera, le strade sono deserte e le insegne dei locali spente. In realtà anch’io mi sono fatta l’autocertificazione per uscire col cane la sera, visto che proprio ieri, ho letto su un quotidiano locale che una donna, a piedi con il suo cane, ha ricevuto una multa di ben 206 euro perché non l’aveva con sé.

I centri commerciali sono presi d’assalto dai rodigini, che, come cavallette, lasciano la devastazione dei campi coltivati dove passano, o come Attila, flagello di Dio, sovrano degli Unni, così chiamato per la sua ferocia: si diceva che dove fosse passato non sarebbe più cresciuta l’erba. Ma penso che ciò accada in tutto il Paese. La merce inizia a scarseggiare. Nonostante l’ordinanza del sindaco di Rovigo non abbia ancora imposto alle attività commerciali e artigianali di chiudere, la crisi del settore, in particolare per quanto riguarda negozi, ristoranti e bar, inizia a farsi sentire con conseguenze che, a lungo andare, potrebbero essere importanti per l’economia del territorio. Ad essere stati presi d’assalto, in queste ore, i supermercati della città e della periferia, i cui dipendenti sono impegnati a rifornire gli scaffali di merce, svuotati durante il weekend, in particolare di generi alimentari come pasta, farina, frutta e verdura.

A me rimane forte il timore che la pandemia si trasformi in un nuovo 24 ottobre 1929, quando la borsa valori di New York crollò miseramente, dando avvio alla grande depressione che si propagò in tutto il Pianeta. Ci aspettano dei nuovi anni 30? Il governatore del Veneto, Luca Zaia, parla già di chiusura totale delle attività non essenziali, così come il governatore della Lombardia Attilio Fontana (regione che da sola produce il 50% del Pil nazionale) e quello del Piemonte, Cirio: se tutti abbassiamo le serrande, quanti suicidi avverrebbero? Se già ora, complice la crisi del 2008, i numeri sono da bollettino di guerra?

Passando dalla vita contemplativa alla vita pratica, avrei proprio bisogno di tornare alla mia routine, al mio allenamento in palestra, alle visite psichiatriche quindicinali. Ho appena telefonato al Centro di salute mentale ma, mi hanno risposto, possono al momento prendere in carico solo casi urgenti. «Se è urgente si deve far fare la richiesta di visita psichiatrica dal suo medico di base», dice l’operatore.

Alla fine i sogni sono tanti, ma tra il dire e il fare, si sa, c’è di mezzo Covid-19. Intanto mi concentro sulla scrittura. «Non sono la mia malattia», come diceva Nietzsche. Anche il grande filosofo Nietzsche, appunto, è stato in manicomio, alla fine dei suoi giorni; anche Van Gogh a Saint Remy; anche Alda Merini era bipolare, come noi ragazze della psichiatria, e ha subito pure l’elettroshock, che ora, per fortuna, non esiste più. E anche Oriana Fallaci, come molte di noi, ha tentato il suicidio con un’overdose di sonniferi, a Londra, per un misterioso giornalista, ed è finita da prassi in psichiatria. Troppo breve la vita per inchiodarla a una diagnosi. Se siamo stati creati a sua immagine, anche Dio non sarà scevro di qualche forma di nevrosi.

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