Macerata

Pamela Mastropietro, la mamma in Tribunale a Perugia con le foto dei resti della figlia

Momenti di tensione quando l'imputato Innocent Oseghale è stato condotto fuori dall'aula. «Fatto errore giudiziario» ha detto il nigeriano ai giornalisti, Alessandra Verni si è avvicinata gridandogli: «Dimmi. Dimmi. Che vuoi?»

MACERATA – I resti smembrati della propria figlia sulla T-shirt. Alessandra Verni è entrata in tribunale a Perugia indossando una maglietta con le immagini shock della figlia. «Guardate come me l’hanno ridotta!», ha detto rivolgendosi ai giornalisti. Poi al termine dell’udienza, momenti di tensione quando l’imputato Innocent Oseghale è stato portato fuori dall’aula. È accaduto oggi nel giorno in cui i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Perugia avrebbero dovuto sentire le due persone che ebbero rapporti sessuali con Pamela Mastropietro dopo l’allontanamento della 18enne dalla Pars. I due testimoni però non si sono presentati e l’udienza è stata rinviata al prossimo 22 febbraio. Il presidente della Corte Paolo Micheli ha chiesto a Oseghale se intendesse partecipare alla prossima udienza ma lui ha risposto di no, poi è stato condotto fuori dagli agenti della penitenziaria. Nell’uscire, l’imputato è passato davanti ai genitori di Pamela e al gruppo di amici che li aveva accompagnati da Roma, ma prima del capannello di persone c’erano dei giornalisti, Oseghale a loro avrebbe detto qualcosa come «Fatto errore giudiziario», ma a quel punto la mamma di Pamela si sarebbe avvicinata gridandogli: «Dimmi. Dimmi. Che vuoi?». Sono intervenuti anche i carabinieri e Oseghale è stato fatto uscire velocemente.

Fuori dal palazzo di giustizia Alessandra Verni ha mostrato ai giornalisti la T-shirt indossata sotto la giacca su cui erano riprodotte le foto scattate in occasione dell’autopsia, immagini che ritraevano i resti della propria figlia, il capo, gli arti e porzioni del tronco disposti sul tavolo della sala settoria dell’obitorio di Macerata. «Perché dopo 5 anni ancora bisogna discutere se dare un ergastolo a una persona che ha fatto quello che ha fatto su mia figlia – ha detto Alessandra Verni ai giornalisti –. Ci rendiamo conto? E gli si viene pure a chiedere all’imputato se vuole venire la prossima volta oppure no? Secondo me lui è obbligato a venire per quello che ha fatto. Deve stare qui. Spero che il processo si possa chiudere con un ergastolo perché altrimenti qua a noi ci ammazzano un’altra volta. Ci stanno uccidendo per la seconda volta».

«Tra qualche giorno saranno precisamente cinque anni da quando è accaduto quel massacro – ha riferito lo zio materno di Pamela e legale dei familiari, l’avvocato Marco Valerio Verni -. Onestamente riteniamo che non dovevamo stare qui, dopo due gradi che nel merito avevano accertato senza ombra di dubbio la violenza sessuale, a discutere ancora se questo reato sia accaduto o meno. Al di là della pena quello che interessa è la verità». Il 34enne nigeriano Innocent Oseghale è stato riconosciuto responsabile in via definitiva dell’omicidio e del depezzamento del corpo della 18enne Pamela Mastropietro (il delitto era avvenuto il 30 gennaio del 2018 a Macerata), ma i giudici di Cassazione hanno rinviato ai colleghi della Corte d’Appello di Perugia la decisione sulla sussistenza o meno dell’aggravante della violenza sessuale. Per il nigeriano potrebbe fare la differenza tra l’ergastolo e una condanna a 30 anni. Nella scorsa udienza i giudici umbri hanno deciso di sentire come testimoni i due uomini che Pamela incontrò dopo essersi allontanata dalla comunità Pars e con cui ebbe rapporti sessuali. Inizialmente indagati anche loro per violenza sessuale, le loro posizioni vennero archiviate. La prossima udienza si terrà il 22 febbraio quando i due testimoni dovranno presentarsi in aula (per uno dei due è stato disposto l’accompagnamento coattivo).

«Secondo noi – ha commentato l’avvocato Simone Matraxia che difende l’imputato col collega Umberto Gramenzi – le risultanze processuali non sono tali da poter dimostrare la sussistenza del reato di violenza sessuale. L’imputazione rispetto a quella iniziale è mutata diverse volte a causa proprio dell’assenza di prove in merito al rapporto sessuale. Fondamentalmente sono tre le possibili modalità di violenza ipotizzate: perché la ragazza ha assunto droga e poi c’è stato il rapporto sessuale, ma non c’è prova che il rapporto segua l’assunzione; per la condizione borderline di cui la ragazza soffriva, ma non è contestata e tra l’altro lo psichiatra aveva affermato che poteva avere anche momenti di lucidità e che quindi poteva non essere percepibile all’esterno; perché la ragazza voleva usare un preservativo, ma questo chi lo dice? Riteniamo che nessuna delle tre diverse prospettazioni sia riscontrata sotto il profilo probatorio».

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