Macerata

Omicidio di Rosina Carsetti, il movente e le prove che hanno incastrato il nipote Enea

I giudici della Corte d'Assise di Macerata hanno depositato le motivazioni della sentenza emessa il 15 dicembre scorso, 740 pagine per spiegare la decisione in merito ai molteplici reati contestati a vario titolo ai tre coimputati

MONTECASSIANO – Delitto di Rosina Carsetti, depositate le motivazioni della sentenza con cui il 15 dicembre scorso i giudici della Corte d’Assise di Macerata hanno condannato all’ergastolo il nipote della vittima, il 22enne Enea Simonetti, assolvendo dal reato di omicidio in concorso la madre Arianna Orazi e il nonno materno Enrico. In 740 pagine il giudice estensore Daniela Bellesi ha ripercorso e spiegato la decisione della Corte in merito ai molteplici reati contestati a vario titolo ai tre coimputati. Oltre la metà della corposa sentenza è naturalmente dedicata al reato di omicidio per il quale il pubblico ministero Vincenzo Carusi, al termine dell’impegnativa requisitoria, aveva chiesto l’ergastolo per tutti e tre gli imputati.

Il fatto

Il 24 dicembre del 2020, alle 19.47, da una villetta di Montecassiano di via Pertini parte una chiamata al 112 per una richiesta di intervento. Al telefono c’è una donna, Arianna Orazi, che dice che in casa è entrato un ladro che ha picchiato lei e il padre e pensa che la madre sia morta. Arrivano i carabinieri, interviene anche il 118 e i sanitari per 20 minuti provano a rianimare l’anziana che non presenta “rigidità cadaverica o altri segni che potessero far pensare a un decesso avvenuto molto tempo prima”, avrebbe poi spiegato il medico del 118 in aula. Nel frattempo i militari sentono Arianna, il padre Enrico e il nipote Enea e iniziano a controllare l’abitazione, non trovano segni di effrazione ed esaminano la stanza dove sarebbe avvenuta la colluttazione col presunto ladro. Madre, padre e figlio vengono portati in caserma per raccogliere ulteriori informazioni, in piena notte viene svegliato anche l’altro figlio della vittima che vive con la propria famiglia a Corridonia. L’uomo, che non sapeva ancora nulla della morte della madre, si precipita in caserma e parla col padre cercando di farsi raccontare l’accaduto.

Le indagini

Iniziano le indagini e iniziano le intercettazioni per capire cosa sia accaduto in quella villetta. La notte tra il 24 e il 25 dicembre Enea, all’epoca 20enne, sembra cedere. Conferma che quando la nonna è morta lui non era in casa, era andato al supermercato per comprare qualcosa per cena ed era rimasto in auto nel parcheggio a giocare col cellulare per circa un’ora e mezza prima di tornare a casa. Ma aggiunge che quando è entrato aveva trovato la mamma legata “col filo del folletto in modo posticcio”, parlando anche di un incidente avvenuto in casa. Il 7 gennaio viene fissato l’interrogatorio di tutti e tre i familiari in caserma a Macerata ed Enea, la mamma e il nonno si avvalgono della facoltà di non rispondere. Le indagini proseguono, i tre sono intercettati e loro lo immaginano, il nonno si chiude nel silenzio, Arianna invece parla al telefono con l’amica del cuore, parla con il fratello e la cognata che con non pochi sacrifici li ospitano per diverso tempo a casa loro perché la villetta di Montecassiano è sotto sequestro e lei con tutti continua a sostenere la versione del ladro. Tra di loro, invece, mamma e figlio parlano a bassa voce, in certe circostanze non parlano affatto ma qualcosa sfugge. La storia del ladro viene raccontata per un mese e mezzo, fino all’alba del 12 febbraio 2021 quando i carabinieri arrestano Arianna ed Enea e li portano in carcere. Nella misura ci sono stralci delle intercettazioni da cui si capisce che la storia del ladro era tutta inventata.

La ricostruzione della Corte

Rosina Carsetti

Per la Corte d’Assise Rosina è stata uccisa da una sola persona, Enea. «È indubbio – si legge nelle motivazioni – che Simonetti Enea fosse pienamente consapevole delle condizioni fisiche della nonna, ormai indebolita dai suoi 78 anni di età e che proprio tale caratteristica gli avesse consentito di ucciderla, nell’arco di quattro minuti, compressa dal suo corpo, con la bocca e il naso occlusi, stretta al collo dalla sua mano “di nipote”». Poi il giudice ricostruisce quello che sarebbe accaduto il 24 dicembre di tre anni fa, parlando di una giornata apparentemente normale per Rosina, almeno sino alle 16.51. Pochi minuti prima, alle 16.46 Enea aveva scattato delle foto in giardino, alle 17.14 aveva risposto a un messaggio di auguri di Natale su WhatsApp e da quel momento non aveva più avuto interazioni con il suo cellulare, pur continuando a ricevere messaggi. Arianna aveva inviato i suoi ringraziamenti alle 16.46, probabilmente stava guardando la Tv con il padre quando la mamma è stata uccisa.
Per la Corte Rosina sarebbe stata uccisa tra le 17.15 e le 17.47. «Non può affatto escludersi, dunque, che Enea rientrando in casa dopo le foto e dopo aver risposto al messaggio di auguri, oppure salendo in camera, avesse incontrato la nonna e ne fosse insorta una lite, da cui fosse scaturita la sua determinazione omicidiaria». I giudici ipotizzano anche che in quegli attimi Enea possa aver pensato che la nonna avrebbe potuto chiamare di nuovo i carabinieri, come aveva fatto il mese precedente, per dargli un’altra lezione e magari, in quell’occasione, «si sarebbe avvalsa di un avvocato, a cui fornire la propria versione del “diverbio”. Simonetti Enea, solo di fronte alla nonna, senza la madre, questa volta – nell’ambito di una verosimile discussione – le aveva manifestato il suo rancore, sino a quel momento represso, ma mai catartizzato». Non appena si era resa conto dell’omicidio della madre, Arianna aveva immediatamente cercato di proteggere il figlio, inscenando le tracce della simulata rapina, mentre Enrico «era l’unico dei tre correi che era completamente all’oscuro della causa della morte della moglie, tanto che al figlio riferiva che fosse morta a causa di un “infarto”».

Le prove

A incastrare Enea sono state le intercettazioni. Parlando con la madre la mattina di Natale in caserma lui stesso ammette il delitto: «Ma ti rendi conto di quello che ho fatto?», «Non me ne frega niente» gli risponde Arianna e lui: «No, so’ scappato via, dopo». Per i giudici queste sono ammissioni autoaccusatorie che sarebbero state suffragate anche dalle dichiarazioni della madre e del nonno. La stessa mattina Arianna aveva detto al figlio che una volta fatta l’autopsia, gli inquirenti avrebbero scoperto che Rosina era morta «strozzata… chi cazzo l’ha strozzata, Enea? Uno che pesa 70 chili? (riferendosi ad Enrico, ndr) Io? Enea, non dire mai quello che hai fatto… mai, ad un’anima!». Il 28 gennaio è ancora Arianna che parla col figlio: «Io non oso pensare a quello che hai fatto… non oso pensà». «Che ho fatto?», le aveva risposto Enea e lei: «Non potimo dì niente adesso! (Non possiamo dire niente adesso, ndr)». Anche nelle parole che il nonno pronuncia parlando col figlio in caserma il 25 dicembre i giudici trovano un avallo alle asserzioni autoaccusatorie di Enea: piangendo Enrico aveva detto al figlio, riferendosi inizialmente alla moglie Rosina, «Per il male che mi ha fatto, non me ne frega niente. Ma adesso quello là, c’ha vent’anni».

L’alibi costruito

Enea e la mamma davanti alla villetta

Così, dopo il delitto mamma e nonno avrebbero «costruito ad arte intorno ad Enea uno scudo protettivo», Arianna tentando «disperatamente di dimostrare l’innocenza dell’unico autore del reato, mentre Enrico, dopo le dichiarazioni iniziali volte a sostenere l’ipotesi della simulazione della rapina al solo scopo di “salvare” il nipote dall’accusa di omicidio, si era trincerato in un silenzio glaciale, preoccupato nella propria ottica che le proprie parole potessero pregiudicare la posizione del nipote, anziché aiutarla». Tuttavia, prosegue il giudice Bellesi, né la mamma né il nonno «si erano mai spinti né nel corso degli interrogatori, né nel corso delle totalizzanti intercettazioni ad autoaccusarsi dell’omicidio di Rosina».
Subito dopo il delitto Enea era andato al supermercato ed era rimasto un’ora e mezza nel parcheggio, per precostituirsi un alibi, ma per i giudici quell’alibi copriva un arco temporale limitato, dalle 17.47 e le 19.41, mentre il medico legale Roberto Scendoni aveva collocato l’orario del decesso tra le 16.30 e le 18.30. Insomma, l’alibi non avrebbe escluso la presenza di Enea in casa nell’ora dell’omicidio della nonna che i giudici collocano tra le 17.15 e le 17.47. Nonostante ciò il giovane, «forte del suo alibi “costruito” anche in sede dibattimentale, senza scrupoli – evidenzia la Corte –, aveva confermato le accuse prima nei confronti del solo nonno, poi anche verso la madre».

Il movente

Per i giudici Enea è l’unico in famiglia ad avere un movente. Non il marito di Rosina che «nonostante subisse le offese della moglie ed avesse ricevuto dalla stessa una “sberla” sostanzialmente senza significative reazioni da parte sua, continuava a portarle un panino fresco ogni mattina, consegnandole il denaro di cui disponeva, stante le difficoltà economiche della ditta». Non la figlia Arianna che «in un contesto di tensione – scrive la Corte – manifestava da un lato il suo autocontrollo, dall’altro l’intento di non infierire sulla madre». Il riferimento è a un litigio sorto nell’estate del 2020 tra mamma e figlia quando Rosina aveva colpito con uno schiaffo la figlia e quest’ultima aveva reagito spingendola. Quella volta era intervenuto anche Enea in difesa della madre ma lei lo aveva bloccato. Il 24 dicembre però la madre non c’era. Il movente dunque sarebbe un litigio, l’ennesimo, «scaturito – scrive il giudice – da un “dispetto” da parte di Enea, o da una “offesa” proferita nei suoi confronti dalla nonna (Enea aveva riferito che la nonna lo insultava chiamandolo “deficiente”, “stupido”, ndr) o dalla contestuale reciprocità delle due condotte».

Il contesto

A fare da cornice all’omicidio c’era un clima familiare teso, per i disagi scaturiti dalla crisi finanziaria della ditta e per la convivenza dei due nuclei familiari da circa 10 mesi, e un rapporto, quello tra nonna e nipote, «privo di un sincero affetto reciproco, piuttosto connotato da una vicendevole tensione latente, mai compiutamente esternata tanto da non essere mai travalicata in maltrattamenti, ma, al contempo, mai catartizzata». Guadagnando il punto di vista di Enea, il giudice evidenzia i cambiamenti avvenuti nella vita del 20enne nell’arco di neppure un anno: si era trasferito a casa dei nonni e ne era diventato proprietario con l’impegno di accudire gli anziani per tutta la loro vita, da apprendista nell’azienda di famiglia, dove lavoravano anche il nonno e la mamma, stava per diventare titolare di una pizzeria. «Stava affrontando (o piuttosto subendo) una personale rivoluzione copernicana», lui che fino a quel momento aveva ricoperto il «ruolo di figlio e nipote coccolato e libero di avere ciò che voleva, protetto da una madre che gli aveva sostanzialmente dedicato tutta la sua vita e da un nonno che gli aveva fatto da padre». A questo si aggiunge un contesto «reciprocamente e contestualmente litigioso, connotato da una certa tensione in cui Rosina non aveva risparmiato uno schiaffo alla figlia» e in passato anche al marito. «Questo astio di Simonetti Enea verso la nonna per il suo atteggiamento ostile non aveva trovato una soluzione in una convinta riappacificazione. Piuttosto Enea era consapevole degli insulti che Rosina riservava al nonno, definendolo un “cretino”, un “somaro”, e che il nipote considerava come un padre».

I maltrattamenti

In merito ai maltrattamenti, questi sono stati esclusi dai giudici perché «alcune delle condotte prospettate come vessatorie non risultano dimostrate, mentre altre risultano altrimenti giustificabili». Ci sarebbero state delle contraddizioni nelle versioni fornite dai testimoni sentiti in aula sui presunti maltrattamenti che Rosina diceva alle amiche di subire, «tanto da non potersi escludere – si legge nelle motivazioni – che appositamente la donna omettesse dettagli fondamentali per la ricostruzione dei fatti al fine di escludere, comunque, ogni sua responsabilità nel quadro che andava a descrivere ai suoi interlocutori, ovvero esagerasse certe situazioni onde connotare normali litigi ed incomprensioni familiari come “maltrattamenti”. La riprova di tale conclusione è che la Carsetti non aveva mai sporto denuncia o querela nei confronti dei familiari; allorquando si era rivolta alle Forze dell’Ordine, non era stata riscontrata alcuna ipotesi di reato nelle condotte dei familiari; anche l’operatrice del centro antiviolenza non aveva rilevato alcun elemento di gravità o emergenza che richiedesse l’attivazione degli interventi che il centro antiviolenza aveva la possibilità di offrirle, piuttosto evidenziando che la Carsetti aveva ritenuto opportuno fissare un appuntamento con un avvocato, per decidere quale potesse essere la soluzione migliore per il suo disagio». Il giudice parla poi di «rapporti familiari notevolmente condizionati dalla forte personalità di Carsetti Rosina, che incideva significativamente nei reciproci diverbi».

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