Macerata

2 Giugno, tra valori e disaffezione alla politica. Il prof Severini di Unimc: «Serve un progetto di rieducazione nazionale»

Una data che segna un passaggio storico fondamentale per il Paese. «Una festività che però non è riuscita a trovare l'appeal che hanno il 14 luglio in Francia o il 4 luglio negli Stati Uniti»

ANCONA – Il 2 Giugno si celebra la Festa della Repubblica Italiana, nata il 2 giugno 1946 quando gli italiani furono chiamati alle urne per il referendum nel quale dovevano scegliere tra Monarchia e Repubblica. Un passaggio storico fondamentale che segna la vittoria dei repubblicani con il 54,3% dei consensi, i quali si imposero sui monarchici fermi al 47,7%. Per la prima volta nel Paese votano anche le donne.

In quella stessa data gli italiani votarono anche per eleggere i membri dell’Assemblea costituente, l’organo chiamato a scrivere la Costituzione ancora in vigore. L’Italia usciva sconfitta dalla guerra e il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica avvenne in un clima di tensione. La data del 2 Giugno viene proclamata Festa della Repubblica solo due anni dopo il referendum, nel 1948.

Abbiamo parlato di questa importante ricorrenza per il Paese con il professor Marco Severini, ricercatore confermato in Storia contemporanea, professore aggregato di Storia dell’Italia contemporanea (dal 2012) e di Storia delle Donne nell’Italia contemporanea (2021) presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata

Professore la ricorrenza del 2 Giugno segna una tappa fondamentale per la storia del Paese, qual è oggi il senso di questa celebrazione? È mutato o rimasto inalterato?
«La Festa del 2 Giugno ci ricorda uno dei passaggi più importanti della nostra storia nazionale, cioè la nascita della Repubblica italiana. Benché siano trascorsi 77 anni dall’evento, questa festività non è riuscita a trovare l’appeal che hanno il 14 luglio in Francia o il 4 luglio negli Stati Uniti. Da una parte, perché esiste la ricorrenza del 25 Aprile, data simbolo della Liberazione, che è sempre stata maggiormente sentita e partecipata, e dall’altra poiché gli stessi governi repubblicani non vi hanno investito in maniera culturale e popolare almeno fino al settennato di Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006). Inoltre, nel corso del Novecento, tale ricorrenza ha subìto la concorrenza di un’altra data, il 4 novembre, che ricorda la vittoria italiana nella Prima guerra mondiale, una ricorrenza che ha rappresentato la celebrazione della continuità dell’apparato statale e delle istituzioni nazionali sul lungo periodo, indipendentemente dai regimi politici della storia unitaria, assunta per lo più dai governi di centro-destra e fiancheggiando pure la nostalgia di fascisti, qualunquisti, monarchici e altri». 

Stretta tra queste due date, il 2 Giugno, secondo il docente «si è dunque rivelata una festività ibrida, pleonastica, notarile, priva di quell’entusiasmo popolare che si è riversato sul 25 Aprile cosicché è di fatto scomparsa nel 1977 per iniziativa del governo Andreotti-Cossiga che ha spostato, con il beneplacito di tutte le forze costituzionali, alla prima domenica di giugno la celebrazione della Repubblica e alla prima di novembre la commemorazione della “vittoria”. Nel 1988 si sono tenuti l’ultima parata militare novecentesca e l’ultimo ricevimento presso il Quirinale, divenuto col tempo una passerella mondana, passerella sostituita nel 1992 con l’apertura dei giardini del palazzo presidenziale alla cittadinanza italiana. Grazie al progetto di religione civile incentrato sul recupero dell’identità nazionale del presidente Ciampi, il 2 Giugno è stata riammessa come festa nazionale nel calendario civile repubblicano con la legge 20 novembre 2000, n. 336. Ma dopo il 2012, a fronte della crisi economica, con il presidente Napolitano è stato nuovamente sospeso il ricevimento cerimoniale, in segno di austerità e di solidarietà verso i poveri, mentre la parata ha svolto il programma in maniera ridotta. Il ricevimento è stato poi ripristinato dal presidente Mattarella nel 2015. Come si vede, tali interruzioni hanno inficiato il carattere popolare della festività che costituisce invece la carta d’identità, insieme al 25 Aprile, della cittadinanza repubblicana».

Il Professor Marco Severini

Al centro dell’agenda politica nazionale c’è la riforma della Costituzione: quali sono a suo parere le ali sulle quali sarebbe giusto fare dei cambiamenti e quali, invece, le situazioni improbabili?
«Il nostro Paese vive una situazione oggettivamente preoccupante, quasi grottesca perché l’obiettivo della democrazia consiste nel ridurre le disuguaglianze che invece risultano sempre più vistose ed accentuate: un elettore su due – e in alcuni casi uno su tre – non si reca più a votare; la cultura e la sanità, che sono i principali settori da cui si evince la salute democratica dello Stato, versano in una condizione gravissima; se a ciò aggiungiamo la questione morale, il potere invisibile e la conseguente mancanza di trasparenza, il prevalere della rappresentanza degli interessi su quella politica (e la pessima legge elettorale che ci costringe a votare, anziché candidati di nostra scelta, quelli determinati dai leader politici), la pesantezza della burocrazia, l’occupazione del potere da parte dei partiti, la lentezza del meccanismo decisionale, l’instabilità governativa e lo strutturale ritardo in termini di rapporti di genere (nonostante la novità di due donne alla guida della formazione di maggioranza e di quella di opposizione), il quadro risulta allarmante».

«Bisogna ripartire da una nuova legge sulla scuola e sull’università – dice -, dalla tutela del territorio e dell’ambiente e da un miglior coinvolgimento dei cittadini nella dimensione politico-civile. La carta costituzionale ha dato voce in diversi articoli a queste tematiche, ma non è necessario intervenire costituzionalmente. Basterebbero una nuova classe dirigente (quella attuale è per larghissima parte da pensionare) e un governo maggiormente sensibili ai reali problemi della comunità. Dai palazzi capitolini vanno espunti il prima possibile l’autorefenzialità, l’individualismo e le logiche di potere che inquinano la vita politica, civile e sociale. E ci vogliono più donne nelle carriere apicali».

Alla luce dell’astensionismo emerso nelle ultime elezioni, anche nelle Marche, date cardine come queste per la democrazia del Paese che significato assumono visti la disaffezione e il disinteresse mostrato dai cittadini verso la politica e verso ciò che ruota attorno alla democrazia?
«Il preoccupante vuoto culturale nazionale – il 56% degli abitanti, stando ai dati più recenti, non legge neanche un libro all’anno – può essere contrastato solo con un radicale intervento normativo. Un intervento che però richiami una manovra in doppia cifra nel Pil nazionale (circostanza mai verificatasi) e si articoli attraverso un capillare progetto di rieducazione nazionale. A tutti i livelli: dai giovanissimi agli anziani. La formazione è infatti permanente e la democrazia e la pace, perni della nostra cittadinanza e della nostra Costituzione, vanno difese, comprese e approfondite giorno per giorno, mese per mese, anno per anno. I nostri docenti sono tra i più sottopagati d’Europa, mentre le spese militari fanno registrare sempre nuovi record! Una volta rieducati, gli italiani devono riappropriarsi della loro natura politica perché quest’ultima è il frutto della migliore civiltà umana.  Comprendo le scelte della parte dell’elettorato che non va più a votare, ma non le condivido: la debolezza e l’inconsistenza dell’attuale ceto dirigente sono davvero impressionanti così come la sua lontananza dalle questioni dell’Italia reale. Tuttavia, girarsi dall’altra parte è in ultima analisi una scelta sterile, autolesionista e conformista che non ci porta, in quanto cittadini, da nessuna parte».

Secondo il professore Unimc «la democrazia richiede partecipazione, impegno e senso civico dell’altro. Nel 2011 si sono tenute roboanti celebrazioni per il 150° Anniversario dell’Unità nazionale. Ma pochissime voci si sono levate, per lo più a livello cerimoniale, l’anno scorso per ricordare i 150 anni della morte del nostro vero Padre della Patria, Giuseppe Mazzini, che nel suo bestseller (“Dei doveri dell’uomo”, 1860) ha lasciato agli italiani un messaggio straordinario e attualissimo: gli esseri umani non devono vivere per sé ma per gli altri e il fine dell’esistenza non consiste nell’essere più o meno felici (come invece molti credono), ma nel rendere migliori se stessi e gli altri. Gli italiani di oggi vivono un deficit di democrazia per una serie di complesse ragioni, ma soprattutto perché non hanno vissuto i tempi della dittatura e dell’autocrazia. Per capire come si viveva quando diritti e doveri non erano tutelati da una carta costituzionale, è sempre meglio leggere e studiare, ma anche un salto al cinema può essere salutare. Consiglio la visione di Rapito, l’ultimo film di Marco Bellocchio: solo il compianto Luigi Magni avrebbe saputo descrivere meglio i tempi incerti di un’Italia divisa in una pletora di Stati governati da autocrati già condannati dalla storia che, però, riuscivano in qualche modo a sopravvivere a rivolte e rivoluzioni. Proprio come fanno certi politici di oggi».

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