Jesi-Fabriano

Una “stagione” ad alta quota, l’esperienza della jesina Monica Memè nel rifugio alpino

La giovane 30enne ha lavorato e vissuto un mese e mezzo al Città di Carpi, sopra Misurina (Belluno). «In montagna mi sento a casa»

Monica Memè

JESI – Un mese e mezzo di vita e lavoro a 2110 metri di altitudine, in un rifugio delle Dolomiti. È l’esperienza fatta per il secondo anno consecutivo da Monica Memè, 30enne jesina che questa volta ha scelto il Città di Carpi, sopra Misurina (Belluno), per unire l’utile, il lavoro, al dilettevole, vale a dire il suo amore sconfinato per la montagna. Dalla fine dello scorso luglio fino alla metà di settembre.

«Ho un fratello e una sorella più grandi con i quali ho fatto i primi viaggi fuori Italia – racconta Monica Memè -. Questa passione mi è rimasta e dall’età di 21 anni ho iniziato a uscire dalla mia città per lunghi periodi, sia per fare volontariato in varie parti del mondo che per approfondire la disciplina dello yoga, per la quale ho trascorso molto tempo in India. Una bellissima opportunità per esplorare ed esplorarmi. Ho viaggiato poi in altri paesi in Asia (Nepal, Birmania, Thailandia e Vietnam). Lo yoga è diventato parte della mia quotidianità e anche una professione. Un’altra passione che mi accompagna da quando sono bambina è la danza. Mi piace comunicare senza dover parlare». Da qui, l’amore per il coinvolgente silenzio delle vette. «Negli anni ho sviluppato una forte connessione con la montagna, con la roccia, con la natura, tanto da frequentarla sempre più assiduamente, in tutte le stagioni e con tutte le condizioni meteo – spiega -. Sono molto legata al nostro caro Appennino, ma ho anche visitato luoghi lontani, come parte della catena montuosa dell’Himalaya in Nepal e diverse zone delle Alpi italiane. A piedi, camminando, il miglior modo per conoscere un luogo, le persone e per vivere lentamente assaporando ogni passo».

Il rifugio Città di Carpi

Come è nata questa idea di vivere e lavorare in rifugio?

«Lo scorso anno per la prima volta sono andata a lavorare in un rifugio nelle Dolomiti per il mese di agosto, cercando appunto di unire l’utile al dilettevole. Quest’anno sono tornata in zona, scegliendo il rifugio Città di Carpi, che si trova sopra il paese di Misurina, in provincia di Belluno. È un luogo fatato, di una meraviglia indescrivibile, le parole non bastano e i racconti nemmeno. Va vissuto per poter essere compreso. Qualcuno del luogo direbbe “Appena arrivi a Misurina ti assale la Misurinanza”, ecco, la misurinanza va vissuta per essere compresa. Il rifugio Città di Carpi è un rifugio del CAI di Carpi. Si trova a 2110 metri di altitudine ed è circondato da meraviglie naturali, regna la pace e il silenzio (a meno che non ci siano le mucche al pascolo con i campanacci). Attorno a esso ci sono i Cadini, la croda dei Toni, di fronte le Marmarole. È gestito da ormai 32 anni dalla famiglia Molin di Auronzo. Fofo (Rodolfo), il gestore, è una persona fantastica e a dar man forte ci sono i figli e la moglie. Oltre a loro, nella stagione estiva, ci sono altre persone: quest’anno ad esempio eravamo una bella comitiva di giovani. Davvero un bel clima. Tra l’altro Fofo, assieme ad altri volontari della zona di Auronzo, è venuto nelle Marche dopo i terremoti del 2016 a costruire una struttura nel paese di Massaprofoglio (comune di Muccia), tutto totalmente a loro spese». 

Monica Memè il gestore del rifugio Città di Carpi

Come si svolge la giornata lavorativa?

«Iniziavo verso le 8. Insieme alle altre ragazze ci dividevamo i lavori da fare, ovvero pulire la sala (tavoli, pavimenti, vetri) e i bagni, sistemare il bancone del bar, rifare le camere da letto. Il rifugio ha 22 posti letto divisi in 5 camere. In caso di bisogno aiutavamo anche in cucina con piccole mansioni. Poi all’ora del pranzo prendevamo gli ordini dividendoci tra terrazza fuori (7 tavolate), sala dentro, e servivamo. Si fa anche accoglienza per chi dorme lì la notte, spiegando dove sono le camere, a che ora la colazione e la cena, che viene servita alle 18.30. Terminata quest’ultima, si prepara il buffet per la mattina successiva e ci si può rilassare».

Monica Memè con Glen, uno dei due cani del rifugio Città di Carpi (l’altro è Beth)

Cosa rappresenta per te la montagna?

«È difficile spiegarlo. A volte la roccia, i prati, gli alberi mi sembrano un prolungamento del mio corpo. Sembra una frase fatta ma è davvero così, la montagna è il luogo in cui più di tutti mi sento davvero bene, a casa, anche se spesso può sembrare impervia e spaventare. Sono molti anni ormai che la frequento e l’ho vissuta in svariate sfaccettature e condizioni meteo (a volte parecchio avverse). La montagna va amata e trattata con cura ed estremo rispetto. Chi ci va per sfidarla rischia grosso, non si scherza in alta quota. Andare in montagna a me insegna l’umiltà. Sentirmi piccolissima in mezzo a quei giganti è una meravigliosa sensazione. Le montagne mi hanno insegnato anche a rinunciare (molte volte sono dovuta “tornare indietro” o perché la tempesta era troppo forte, o perché la neve non era buona ed era pericoloso proseguire , etc.). Ogni passo va ponderato e con l’esperienza si impara a valutare quando è il caso di proseguire o meno. La montagna mi insegna anche che di strade ce ne sono tante e che sta a noi capire quale è quella che più si adatta alle nostre caratteristiche. Fondamentale è pure ascoltarsi per capire dove andare e cosa fare. Potrei continuare ancora e ancora, credo solo, in sintesi, che sia una grande maestra di vita. Lavorare in rifugio mi ha dato tanto, soprattutto quest’anno, probabilmente perché si era creato davvero un bel gruppo con gli altri ragazzi e ragazze dello staff. I clienti notavano con piacere la bella collaborazione tra di noi. Mi piace molto lavorare a contatto con le persone, parlare con gli escursionisti e conoscerli per quel poco che mi è possibile. Mi piace far sentire a casa le persone quando sono lontane dalla loro casa, dato che so cosa significa. Allo stesso tempo ho amato i momenti (solitamente nel tardo pomeriggio) in cui per qualche attimo il rifugio si svuotava e potevo ascoltare il silenzio o il suono del campanaccio delle mucche al pascolo, in cui potevo fare due passi dietro al rifugio e ritrovarmi in mezzo alla maestosità dei Cadini, sedermi su una grande roccia e ascoltare il vento che mi scompigliava i capelli osservando le magie che accadevano in cielo. Lavorare in rifugio ti insegna anche la pazienza, la capacità di accelerare quando i tavoli sono pieni di persone affamate e c’è chi attende in piedi il proprio turno. Si affina la propria capacità di ascolto, sia dell’altro che di te stesso. Bello infine sentire le storie e le esperienze delle persone del posto. Potrei continuare a lungo…».

Immagino già la risposta, ma pongo lo stesso la domanda: consiglieresti questa esperienza?

«Consigliare o meno di andare a lavorare in rifugio e vivere un periodo immersi totalmente in montagna non è facile, è come quando i clienti mi chiedevano consigli sui percorsi da fare in base alla difficoltà del tracciato. È molto personale la percezione della difficoltà di un sentiero, come lo è decidere di andare a fare una stagione, o parte di essa, in montagna. Io lo rifarei altre mille volte ancora, ma essendo la vita in alta quota molto particolare non intendo assumermi la responsabilità di consigliarlo a nessuno! Sono approdata sulle Alpi lo scorso anno grazie ad una mia amica che ci lavorava già, ma se si intende fare questa esperienza vi sono siti web in cui gli stessi gestori inseriscono gli annunci».

Cosa ti manca di più?

«Lavorare in rifugio per me non significa solo “andare a fare la stagione” (anche perché io sono stata solo un mese e mezzo, mentre il rifugio è aperto per tre mesi e mezzo d’estate). È soprattutto un modo per riprendere il contatto con me stessa e con ciò che più mi fa stare bene. Non è semplicemente un’esperienza, è una parte importante della mia vita e della mia serenità. Cosa mi manca di più? I cieli stellati nel silenzio più assoluto, meravigliosi».

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