Jesi-Fabriano

Lucia Tittarelli e la sua moda a Km zero. Tra contaminazione e social

La stilista marchigiana (è jesina) racconta il suo lavoro e le sue quattro diverse radici culturali perchè dice «la bellezza sta nella diversità». Due anni fa è nato il suo brand "Limyè" e la sua prima collezione porta sin dal nome l’idea di un inizio splendente

La produzione di abiti come diario di bordo della propria vita: questa l’idea di moda di Lucia Tittarelli e dei suoi collaboratori. Comune denominatore del marchio Limyè è la contaminazione tra diverse culture. Se i social network fanno vedere solo l’aspetto glam delle sfilate, la vera sfida diventa mostrare il duro lavoro che c’è dietro. E farlo da un piccolo centro come Jesi rende più semplice mantenere autenticità. Anche l’eco-sostenibilità e il superamento di canoni corporei standard sono parte di Limyè. Come sostiene la stilista: «La bellezza sta nella diversità».

Lucia Tittarelli è una stilista jesina di 27 anni e quattro diverse radici culturali. Due anni fa è nato il suo brand Limyè. La sua prima collezione porta sin dal nome l’idea di un inizio splendente: è l’Aurora Collection, sotto il segno della contaminazione e di storie da raccontare. In questa intervista parla del suo progetto e del concetto di moda legato al suo brand.

La stilista marchigiana Lucia Tittarelli

Qual è la storia delle sue creazioni artistiche e com’è nata la sua passione per la moda? Quali sono il suo concetto di moda e la sua identità artistica?
«Limyè è la conclusione, ma anche l’inizio, di un percorso che ho vissuto lungo tutta la mia vita. Ho iniziato ad occuparmi di moda da piccolissima. All’inizio era un gioco, poi è diventata una passione in cui investire sempre più tempo e risorse. Già nella scelta delle scuole superiori ero proiettata in questa direzione. Tutti i passi fatti da quel momento hanno gradualmente portato alla creazione del marchio. Proprio per questo ho voluto che tutta la mia produzione, in particolare la prima collezione, fosse un vero e proprio “diario di bordo”, una storia da raccontare. Quello che io e i miei collaboratori cerchiamo di fare è trasmettere una narrazione, un punto di vista, ma anche un sogno: quello di un mondo in cui, attraverso la moda, si possano abbattere delle barriere. Concepiamo la moda come un ponte tra diverse culture».

Gli apporti culturali del suo concetto di moda sono numerosi. Penso, ad esempio, alla grande presenza dell’Africa nella vostra ultima collezione. Da cosa nasce questo gusto per la contaminazione?
«La contaminazione è qualcosa che fa parte di me, è proprio ciò che mi ha spinta a creare il brand. Questo per il fatto che io stessa sono un mix di tante culture differenti. Vengo da quattro diverse nazionalità mescolate insieme: questo ha fatto sì che volessimo mettere all’interno del nostro brand tante piccole contaminazioni da ogni parte del mondo. Si tratta sia di luoghi in cui siamo stati, ma anche di altri in cui vorremmo ancora andare.
In quest’ultimo caso ciò che trasmettiamo è l’idea che abbiamo di quel posto nel nostro immaginario, ancor prima di visitarlo. Sarà poi interessante vedere come si evolve il progetto man mano che riusciamo a visitare tutti quei paesi che cerchiamo di mettere all’interno delle collezioni. Nella collezione di debutto, l’Aurora Collection, abbiamo proprio cercato di fare un riassunto delle concezioni di moda e di bellezza in tutto il mondo. C’è tanta Africa: è un paese che ci ispira molto e in cui speriamo di tornare presto, anche per realizzare un progetto benefico a cui stiamo lavorando. Non mancano poi anche l’Asia e l’Europa».

Le vostre creazioni vengono realizzate per lo più a Jesi: è possibile vivere di moda in provincia? Quali sono pro e contro dell’abitare in una piccola realtà?
«Sicuramente abitare in una piccola realtà fa sì che sia difficile farsi conoscere. Al giorno d’oggi però il mondo non è più solo quello che viviamo nel reale, ma anche quello del virtuale, tramite social media a disposizione nel palmo della nostra mano.
Vivere in una piccola zona quindi non è più un limite, ma anzi è per noi positivo: ci dà modo di lavorare in una realtà ancora incontaminata, in cui c’è molto contatto diretto con le persone con cui si lavora. Così facendo possiamo permetterci di offrire un prodotto in cui far acquistare la qualità, non il costo di tutti i passaggi che ci sono nelle città molto più grandi, dove invece i rapporti vanno “mediati” da terze parti. Per quanto ci riguarda il rimanere in un piccolo centro è stata una scelta consapevole, con l’idea di rendere più autentico ciò che creiamo. Per raggiungere il resto del mondo c’è poi Internet. Anche per far conoscere un piccolo centro come Jesi, perché no?».

Quanto è importante autopromuoversi nel web? Quanto hanno influito le reti sociali nel mondo della moda e per le vendite?
«I social network hanno influito tanto. Per certi aspetti forse anche troppo. Questo perché oggi la fama sul web conta anche più della qualità e dell’autenticità di un prodotto. Ci è capitato spesso d’avere a che fare con negozianti di catene importanti in ambito commerciale che lamentano la frustrazione che ne deriva. Questo è il lato negativo. Ma l’aspetto positivo è che, anche non vivendo in realtà globali, puoi far sentire la tua voce nel mondo. Oggi è completamente imprescindibile il fare moda esulando dai social media. Sarebbe impossibile farlo all’esterno della “rete”».

Rispetto alla qualità, acquistate italiano?
«Nella collezione di debutto abbiamo utilizzato esclusivamente materiali italiani, e vorremmo continuare a farlo. L’idea è quella di un brand a chilometro zero: creare qui in zona sfruttando risorse locali, per poi esportare e far conoscere al mondo il nostro territorio, proprio attraverso i nostri prodotti. Allo stesso tempo però vorremmo anche creare, ogni anno, una mini collezione con tessuti delle zone che visitiamo. Abbiamo già fatto ricerca in Africa, presto andremo in Asia. Sempre nell’ottica di mescolare al nostro stile risorse, anche tessuti, di altre culture».

L’eco-sostenibilità è oggi un tema molto dibattuto e sentito, anche nella moda. Cosa ne pensa?
«Attualmente l’eco-sostenibilità è fondamentale, una direzione verso cui tutte le case di moda si stanno dirigendo. Allo stesso tempo però siamo oggetto di una grandissima contraddizione: si cerca di evitare l’uso di pellicce e pellami autentici, ma c’è un aumento esponenziale della plastica. Soprattutto nelle passerelle delle ultime stagioni. È un approccio contraddittorio. Da una parte più delicato e rispettoso nei confronti dell’ambiente: non si usano più risorse animali, seguendo anche i dettami e lo stile di vita del mondo vegano. Il risvolto è stato però l’incremento della plastica, materiale altamente inquinante. Noi personalmente abbiamo deciso di non utilizzare pelli naturali o vere pellicce. Quello che vorremmo riuscire ad avere nel tempo sono dei prodotti vegetali. Tante start-up oggi si stanno occupando di ricercare risorse di questo tipo, come nel caso di un tipo di pellame che deriva dalla lavorazione dei funghi. Penso che non si potrà parlare davvero di eco-sostenibilità finché pelli e pellicce non verranno sostituite da altre risorse naturali. Non dalla plastica».

Alcune creazioni

Lo scorso 5 marzo lo stilista Karl Lagerfeld è stato compianto dalle modelle in occasione della sua ultima sfilata. Preliminare allo show anche il minuto di silenzio. E a conclusione Heroes di Bowie come colonna sonora. Erano sentimenti autentici o spettacolarizzazione?
«Credo che quello che s’è visto sia autentico. C’è un lavoro talmente grande e importante prima della passerella che non si può trattare di spettacolo. Il vero stilista conosce personalmente tutte le sue modelle e le persone che girano attorno all’evento della sfilata. E trasmette se stesso nelle sue collezioni: è come mettersi a nudo completamente. Tutte le persone che entrano in contatto col designer vedono la sua anima. Nel momento in cui ci si rapporta al mondo della moda con autenticità si creano davvero legami veri e profondi.
A volte invece i social media mostrano solo l’aspetto più glamour e gioioso della moda, oscurando quanto lavoro duro c’è dietro. Forse sarebbe un bene mostrarlo di più. Anche perché ci sono delle figure fondamentali che restano dietro le quinte e non ricevono il giusto ringraziamento per ciò che fanno. Imprescindibili non sono solo lo stilista e le modelle, ma anche il backstage: le sarte, le truccatrici, le parrucchiere, i tecnici…».

Ciascuno nel suo ruolo e nella sua personalità. Come si può sottolineare, anche nell’arte, l’importanza e l’originalità di ogni individuo?
«Importante è il discorso dell’accettazione del proprio corpo. è qualcosa che cerchiamo di fare molto: per scelta i nostri capi vengono realizzati su misura. Stiamo elaborando inoltre un software innovativo proprio in questo senso. Per cercare di limitare l’idea che il corpo che si vede in passerella è accettabile, mentre quello che non è lì sopra non lo sia. In modo scevro da canoni standard. Vorremmo che ogni donna si sentisse bella all’interno del proprio corpo. Non vogliamo più vedere donne che sentono di doversi per forza omologare ad uno standard. Siamo tutti diversi e la bellezza sta proprio nella diversità».

© riproduzione riservata