JESI- Radio Senza Muri, la web radio comunitaria di Jesi che promuove la salute mentale, piange la scomparsa di Alberto Paolini, 92 anni, di cui 42 trascorsi nell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà a Roma nonostante l’assenza di una vera diagnosi di malattia mentale. Romano, classe 1932, si è spento venerdì scorso, 31 gennaio.
Una storia triste, quella di Alberto, ma sempre raccontata con pacatezza tante e tante volte in incontri pubblici, spesso tra i giovani e nelle scuole, e soprattutto tra le pagine del libro che gli ha dato la notorietà, “Avevo solo le mie tasche. Manoscritti dal manicomio” (edizione Sensibili alle foglie, 2016).
Lui, orfano e poverissimo, fu affidato a 14 anni da una famiglia di “benefattori” e dai salesiani ai medici perché ritenuto “strano”, troppo taciturno e triste per essere considerato un ragazzino “normale”. Così entrò in clinica nella Roma postbellica, e fu sottoposto a tre cicli di elettroshock poco più che bambino. Di clinica in clinica, ne uscì solo nel 1990, l’anno dei mondiali di calcio, ed ha vissuto gli ultimi decenni di vita in una casa alloggio.
Non ha smesso mai di condividere la sua storia e la sua bella persona, Alberto, sia scrivendo poesie che aveva preso l’abitudine di appuntare su piccoli fogli di carta ai tempi del manicomio, sia nel suo raccontarsi dal vivo, come ha fatto anche a Jesi, città dove aveva tanti amici. Era accaduto più volte, in occasione della rassegna “Malati di Niente” nel 2017, ai microfoni di Radio Senza Muri, pedalando con Marco Scarponi della Fondazione Michele Scarponi, incontrando gli amici di Soteria, la casa alloggio per utenti psichiatrici dove è stato anche il 21 giugno 2024, per festeggiare insieme il traguardo dei 25 anni della comunità terapeutica di via Tabano 51 a Jesi.




«La sua voce saggia, calma, chiara e dolce rimarrà per sempre nei nostri cuori. Un onore averlo conosciuto… un piccolo grande uomo che ci ha insegnato il garbo, l’eleganza, il perdono, la determinazione della lotta per i nostri diritti e della denuncia contro il potere. È un giorno triste per me e per tutti noi. Lo voglio ricordare circondato da ragazzi e ragazze che aspettano la sua firma su un libro… Avevo solo le mie tasche», scrive Gilberto Maiolatesi sulla pagina facebook di Radio Senza Muri.
Di Paolini, sempre via facebook, Radio Senza muri ha postato ieri un ricordo commovente. «Che cos’ è un confine? Cosa davvero esclude un confine? Un’emarginazione tra culto del decoro, repressione e indifferenza. E quella di Alberto Paolini è una proprio storia di repressione, di politiche del decoro e di indifferenza. E a distanza di decenni resta terribilmente attuale. È una storia drammatica che inizia a Roma nell’immediato Dopoguerra, in occasione del Giubileo del 1950. Dopo la sconfitta del Secondo conflitto mondiale, Roma è devastata dagli strascichi che solo una guerra lascia, la povertà è alle stelle e, in occasione dell’imminente Giubileo, le istituzioni vogliono dare un nuovo look alla città, anche per cercare invano di nascondere l’onta del ventennio fascista. La storia di Alberto si interseca in questo drammatico contesto, già dal giorno in cui è nato, quel 21 novembre 1932, da una famiglia vittima dell’indigenza. In pochi anni perde sia suo padre che sua madre, così Alberto viene trasferito in un istituto di Salesiani e fa la conoscenza di alcune famiglie benestanti che da sedicenti benefattori chiedono di averlo in affido. La sua routine si alterna quindi dalla vita all’interno dell’istituto a brevi e sporadici soggiorni in quelle agiate dimore. Alberto non è un ragazzo vivace, ha un carattere taciturno, riservato. C’è da meravigliarsi considerando il suo vissuto? Evidentemente a detta di quei “benefattori” sì, che in totale accordo con i salesiani decidono di sottoporlo a specifiche visite mediche per verificare lo stato delle sue “condizioni mentali”. È così che nell’ottobre 1947 Alberto viene prima ricoverato per alcuni mesi nella clinica neuropsichiatrica del Policlinico Umberto I; e al momento delle dimissioni viene prima rifiutato dai salesiani, poi da quei sedicenti benefattori, così come da altri istituti. Arriva così il marzo del 1948, periodo in cui Alberto viene internato dell’Istituto psichiatrico di Santa Maria della Pietà e vi resterà per quarantadue anni. Quarantadue anni sì, quasi due intere generazioni. Quarantadue anni: ripeterselo è come venire investiti da una raffica di pugni pesanti. Lì la libertà diventa un ricordo vago e lontano, un’utopia che lo porta perfino a definire il ricovero all’Umberto I decisamente migliore. Anni e anni di isolamento, di farmaci alienanti e ben tre trattamenti a base di elettroshock, prescritto dai clinici dopo averlo ingannato con domande più che equivocabili. Decenni in cui la società si trasformava con una velocità disarmante vissuti all’interno di quella struttura contenitiva, un lager in cui viene anestetizzata ogni curiosità, ogni sentimento che si discosti da dettami imposti da arcaiche teorie scientifiche condite da perbenismo e duro conformismo. Alberto racconta che solo grazie alle proteste studentesche del Sessantotto e alle successive spinte di rinnovamento, come la Legge Basaglia, riesce a cogliere il mutare della società, gli impeti di una modernità che arriverà sempre e comunque troppo a rilento. Quella di Alberto è solo una delle tante storie di repressione psichiatrica, dogmi che ancora oggi tornano in auge seppur mascherati da termini di grande impatto mediatico. Alberto ci ha appena lasciato all’età di 92 anni, ci resta la sua grande e preziosa testimonianza raccontata anche nel suo libro di “Avevo solo le mie tasche”. Ciao Alberto. Grazie di tutto».