Jesi-Fabriano

Traccio, dunque, sono: il Closlieu a Jesi. L’esperienza di Stefania Fiorletta

Anche a Jesi uno spazio per dipingere secondo i criteri del suo ideatore Arno Stern, fondatore nella seconda metà del ‘900 della Semiologia dell’Espressione. Adulti e bambini insieme. «In un posto senza tempo. Nel momento in cui sei lì, tutto il resto è fuori. È un andare alla ricerca di se stessi esprimendolo col colore», spiega l’educatrice

Il laboratorio jesino di Stefania Fiorletta praticien, ovvero educatrice di Closlieu

Stefania Fiorletta è una praticien, ovvero un’educatrice di Closlieu. Creato da Arno Stern a metà ‘900, il Closlieu è un vero e proprio gioco in cui, dipingendo, s’impara a conoscersi e a relazionarsi con gli altri. Fiorletta, che ha il suo laboratorio a Jesi, lo descrive come «una dimensione senza tempo», dove è possibile ricercare se stessi attraverso l’uso del colore.

Non molti sanno che a Jesi, in via Lotto 14, c’è un luogo chiamato Closlieu. Si tratta di uno spazio per dipingere secondo i criteri del suo ideatore Arno Stern, fondatore nella seconda metà del ‘900 della Semiologia dell’Espressione. Stern, durante la seconda guerra mondiale, era un giovane educatore tedesco che, in fuga dal nazismo crea, in un istituto per gli orfani di guerra, il suo primo atelier di pittura.

Nel Closlieu si realizza un vero e proprio gioco privo di prerequisiti di base, come solo i giochi sanno essere. Non ci sono messaggi da veicolare, ma solo il piacere di tracciare su un foglio, bisogno primordiale e sempre attuale. Per conoscersi senza giudizio, “guidati” da un praticien che non dà voti né interpretazioni, ma, al contrario, lascia piena libertà d’espressione.

Ecco l’intervista a Stefania Fiorletta

Stefania Fiorletta

Fiorletta, cos’è il Closlieu?
«Closlieu è un termine che è stato coniato dal suo ideatore Arno Stern. Oggi ha 94 anni e ancora si occupa di formazione in giro per il mondo. Letteralmente “closlieu” significa “luogo chiuso”. Cioè un luogo protetto dove lo scopo è quello di potersi esprimere attraverso la traccia e il colore, senza giudizio degli altri».

Cosa l’ha convinta di questo “gioco”?
«In passato mi sono avvicinata a varie attività nell’ambito dell’espressione e dell’arte-terapia, però non tutte mi hanno convinto. Questa mi piace per la combinazione di rigore e libertà e di rispetto degli altri. Oltre al fatto che fin da piccola mi piaceva colorare: i miei regali preferiti erano colori e pastelli. Disegnavo continuamente. Non mi ritengo particolarmente capace, però m’è sempre piaciuto.

Altro argomento che m’ha convinto molto del closlieu è che si tratta di un luogo condiviso, dove non si sta da soli. Quello che si realizza attraverso la pittura è l’espressione libera di se stessi; non ha l’intento né di comunicare qualcosa né di fare arte né di venire analizzato, interpretato, tantomeno giudicato. È quindi protetto in questo senso, quasi da una sguardo esterno. Ciò permette di andare nella direzione del benessere della persona. E non ha scopi d’insegnamento».

Come funziona l’esecuzione?
«È molto rigoroso nella sua esecuzione, proprio come l’ha stabilito Stern. La mia figura è quella del praticien, che in italiano può essere reso con “servente”, proprio perché deve avere le caratteristiche di chi è a servizio delle persone affinché possano, nella maniera più facilitata e libera, esprimersi attraverso il disegno, la traccia, il colore».

Quindi il praticien non è neanche una guida?
«Può essere una guida nel momento in cui l’utilizzo dei colori, dei pennelli, dei fogli (che hanno tutti una regola precisa) non è corretto. Allora il praticien ti riporta “nella giusta via”, senza darti però indicazioni su come fare. Anzi, ti deve facilitare affinché ci si possa sentire liberi di esprimersi davanti al foglio. È una guida per le cose pratiche: ti dice se non stai utilizzando bene il pennello, se devi mettere più acqua, ti sposta le puntine per il foglio quando serve…Il praticien è a servizio dell’espressione, di quella traccia che ognuno di noi ha come suo patrimonio che si porta dietro da sempre. Stern la chiama “formulazione”. In termini evolutivi il closlieu ti permette di liberare quello che sei».

Il praticien deve anche far sbloccare le persone nel disegno? Avviene più con l’adulto che col bambino, più libero di esprimersi?
«È vero: il bambino, quasi sempre, è più genuino. Sa già come fare perché la traccia è un moto spontaneo della persona, appartiene a tutti. Gli adulti spesso sono più frenati perché si portano dietro l’eredità di chi ha detto loro “non sei capace, devi fare così”. Da praticien devi far sì che si sentano liberi di esprimersi perché non c’è nessuno che li critica. Spesso è capitato che degli adulti “si blocchino” davanti alla tavolozza, un po’ sconcertati e inibiti. In quel caso sono un facilitatore: li incoraggio a non pensare troppo e a iniziare. E la cosa bella è proprio vedere come gli adulti, dopo un primo momento di disorientamento, sentano un senso di gratificazione, hanno un’evoluzione nel modo di tracciare, con una maggiore libertà di espressione che viene fuori nel tempo».

Anche i bambini impegnati nel laboratorio di Stefania Fiorletta

Qual è stata la scoperta principale di Stern?
«Proprio quella di dare la possibilità alla nostra traccia di esprimersi. La spinta a disegnare, a tracciare ci appartiene, fa parte del nostro patrimonio genetico. È proprio un’esigenza quasi fisiologica ed è come una memoria. Stern la chiama “memoria organica”. Le prime espressioni dei bambini sono proprio il “ghirigoro”, oppure lo scarabocchio, poi diventano puntini, linee, cerchi, gocce. Sono forme primarie ed essenziali, manifestazioni grafiche che si ritrovano a tutte le latitudini».

È qualcosa di universale quindi?
«Sì, è proprio un linguaggio universale ed è sempre lo stesso. Stern ci ha fatto proprio vedere centinaia e centinaia di disegni in cui queste forme ricorrono in tutti e dappertutto. Cambiano anche a seconda dell’età: gli adulti per esempio fanno di solito forme essenziali, cioè un po’ astratte, soprattutto spirali e onde. Invece i bambini fanno sempre la figura raggiata, con il sole, o la forma del triangolo come casa. O il “pullulamento”, un ripetersi di un modulo o di uno stesso elemento.
Soprattutto i bambini tendono alla delimitazione dello spazio, fanno una linea blu in alto e una verde in basso. Il giallo e il blu sono infatti le campiture più ricorrenti: il giallo è lo spazio di luce, mentre il blu è lo spazio d’aria. Anche archi e arcobaleni ricorrono molto.
Nei quadri e nei dipinti antichi si trova spesso l’ovale che contiene la figura.
Come vedo anche nella realtà della scuola si possono studiare i segni vedendone la ricorrenza, senza andare ad interpretarli».

L’elemento centrale è il tavolo-tavolozza. Perché è proprio al centro?
«Questo rigore sembra strano, ma nel closlieu tutto ha un senso. E in effetti quando vai fuori da quest’ordine quello che viene fatto perde di significato. La stanza ha misure precise e la tavolozza è proprio quella, con diciotto specifici colori. Deve stare al centro perché dev’essere condivisa da tutti. In questo “gioco del dipingere” tutti possono accedervi».

È importante la condivisione con gli altri?
«Fondamentale. Tu sei da solo, cioè non devi avere condizionamenti dagli altri. Il mio ruolo è anche quello di non far commentare il disegno altrui. Si può chiacchierare (e a volte ci sono anche dei bellissimi scambi), ma non si commenta l’altro. Quando accade il praticien con tatto ma anche fermezza li riconduce al proprio impegno».

Della serie “mind your business”…
«Esatto. La tavolozza però è centrale anche per imparare a stare con gli altri, nell’attesa del pennello che l’altro sta usando, nella regolamentazione dello spazio condiviso. È un elemento importante a livello evolutivo, nel rispetto dello stare insieme».

Gli strumenti: l’unico è il pennello, di norma non ci sono matite o bozzetti. Ha un significato particolare questa scelta?
«Questa è un’attività che si basa essenzialmente sull’uso del pennello e del colore. Poi ci può anche essere la persona che chiede la matita, ma è raro. Lo capisci subito quando la pratichi che non è un’attività con l’intento di fare un ritratto o una natura morta, oppure disegni che richiedono una preparazione. Non è però proibito fare bozzetti: è capitato e lo si concede. Poi, proprio perché è un gioco, si deve anche saper dosare il momento un po’ diverso dal protocollo rigido e rigoroso».

Colori, pennelli e fogli per l’esperienza del Closlieu di Carta Bianca a Jesi

Perché il dipingere in piedi?
«Perché è la posizione più comoda: permette maggior libertà, dovendosi spostare continuamente dalla tavolozza al foglio, la sedia non è l’ideale. Ci sono anche gli sgabelli per andare più in alto. S’inizia con un foglio, ma se poi vuoi espanderti, puoi salire sulla scala o puoi sederti sullo sgabello per pitturare più in basso…
Poi, siccome è un gioco, i bambini, dopo un po’ che hanno pitturato, si divertono a mettere gli sgabelli in scala, salgono e scendono. Anche quel momento deve essere circoscritto, ma entra sempre in una dimensione ludica».

È anche un’attività terapeutica oppure è una forzatura definirla tale?
«Quest’attività può essere preventiva di una terapia e, se praticata con continuità, ha sicuramente effetti terapeutici. Non è però dichiaratamente terapeutica perché non c’è l’analisi del “prodotto”. Lo svolgersi di quest’attività ha però effetti in termini di evoluzione della persona. Anche questo è un obiettivo, non c’è solo il piacere di tracciare con dei bellissimi materiali».

Perché è importante che i materiali siano proprio quelli?
«Sono materiali di livello altissimo e devono essere quelli. Non si possono prendere delle normali tempere perché queste usate nel closlieu hanno una saturazione molto alta. Anche i pennelli devono essere specifici e il foglio deve avere quel peso. Ti dà proprio un gusto diverso. Un rigore non fine a se stesso. Tutto ha senso così».

E nella scuola ha mai fatto laboratori di questo tipo?
«L’ideale è farlo in questo specifico spazio, ma l’attività si può anche trasferire in un ambiente scolastico, cercando di riprodurre il più possibile questa modalità. Qualche anno fa l’ho proposto alla secondaria di primo grado, seguendo nelle scuole dei ragazzi con disabilità. È stata una bella esperienza. Alla fine abbiamo anche coinvolto qualche insegnante. All’inizio in molti dicono, anche tra gli insegnanti, “io non so disegnare” ma tutti sappiamo tracciare, fa proprio parte dell’essere umano».

Il rischio dell’auto-giudizio o del giudizio altrui è sempre in agguato…
«Certo. Secondo me c’è dietro sia il vissuto del tuo rapporto col disegno sia la paura di essere commentato e giudicato. Altro aspetto da considerare è il fatto che i disegni rimangono qui, non vengono portati a casa, sempre per salvaguardarsi dal giudizio. A qualcuno piacerebbe portarselo via perché è soddisfatto del proprio lavoro, ma alla fine capisce che è bello così proprio perché non c’è nessuno che ti dice né che sei stato bravo, né che è brutto. Sei proprio tu e quello che tu rappresenti».

Una domanda sul territorio: Jesi si mostra ricettiva rispetto a questo tipo di attività?
«Per quello che ho visto Jesi è abbastanza curiosa. È un territorio disponibile, che risponde alle novità, non c’è chiusura. Credo che, se conosciuta, quest’attività possa essere davvero gustata. Mi piacerebbe potenziare un po’ di più coi bambini, perché al momento rispondono soprattutto gli adulti. Il gruppo è più bello quando è misto, ha dinamiche più arricchenti. E poi è un’attività per tutti: dai 3 anni fino ai 100».

E sulla scelta dello spazio?
«Questo luogo è silenzioso e si presta. Il closlieu è una dimensione un po’ a sé, un posto senza tempo. Nel momento in cui sei lì, tutto il resto è fuori. È un andare alla ricerca di se stessi esprimendolo col colore».

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