Jesi-Fabriano

Clabo, rilancio con vista a oriente

Intervista a Pierluigi Bocchini, presidente e amministratore delegato del gruppo Clabo di Jesi: «Le opportunità ci sono, basta andarsele a cercare»

Pierluigi Bocchini

JESI – «Le opportunità ci sono, basta andarsele a cercare». È la filosofia imprenditoriale di Pierluigi Bocchini, presidente e amministratore delegato di Clabo, azienda leader nella produzione e commercializzazione di vetrine espositive professionali per gelateria, pasticceria, bar, caffetteria e hotel . Una multinazionale tutta nuova, uscita ottimamente da un complesso processo di ristrutturazione e riorganizzazione che conta attualmente circa 300 dipendenti, poco meno della metà dei quali all’estero. «Il peggio è alle spalle. Sia per l’Italia che per la nostra azienda – afferma Bocchini -. Nonostante le difficoltà, sono fiducioso per il futuro». Gli organici, intanto, aumentano e gli indici di Borsa “sorridono”.

Bocchini, come sta Clabo oggi?
«Siamo usciti da un periodo complicato ormai da tempo – riferisce l’imprenditore jesino -. Dal 2012 in poi abbiamo fatto grossi cambiamenti. Stiamo crescendo, soprattutto all’estero grazie alle acquisizioni in Cina. Due gli stabilimenti produttivi: uno a Jesi e l’altro nel Paese asiatico, dove lavorano un centinaio di persone. Del resto, i nostri ricavi vengono per il 70% dall’estero. Il contesto, insomma, è profondamente mutato rispetto alla Clabo di un decennio fa».

Processo di delocalizzazione o piano di espansione a est?
«Da quando Clabo ha comprato l’azienda in Cina, che è operativa da marzo, stiamo aumentando gli organici a Jesi. Non abbiamo assolutamente intenzione di chiudere la produzione qua. Noi andiamo in Cina per rispondere alle loro esigenze, alle necessità di quel mercato, con l’obiettivo di coglierne i benefici in termini imprenditoriali. Crediamo molto nel legame con questo nostro territorio. Mio nonno ha assunto il primo operaio nel 1958. Jesi e la Vallesina esprimono una manodopera molto qualificata che ci ha consentito di competere egregiamente nel mondo. Clabo rimarrà sempre un punto di riferimento di questa città e di questa regione. Ma le aziende, oggi, sono costrette ad andare a produrre dove c’è mercato, non è solo questione di costi. In Italia produciamo il 65% dei nostri prodotti, ma ne vendiamo un terzo perché i due terzi restanti finiscono altrove».

Il mercato del lavoro, ovviamente, è differente in Italia e in Cina..
«Senza dubbio. Un operaio cinese, tanto per quantificare tale assunto in numeri, costa meno di un terzo di un operaio italiano a parità di specializzazione. E ancora, in Cina, da contratto, il 60% del lavoro è pagato a cottimo. Succede quindi che nei periodi in cui si produce di meno sono gli stessi lavoratori ad andarsene per cercare migliori opportunità di guadagno. Noi, al contrario, abbiamo grosse difficoltà nel ridurre gli organici in momenti di crisi. Non giudico se questo sia giusto o sbagliato: noi facciamo gli imprenditori e il nostro obiettivo è portare risultati nell’ultima riga di bilancio. Le cose però stanno così: ci sono Paesi che si muovono in questo modo. Il nostro sistema, al contrario, è molto rigido. Insomma, solo chi produce beni di altissima gamma, il cosiddetto made in Italy di lusso, può permettersi determinate politiche aziendali. Tutti gli altri, se non si ingegnano, fanno fatica a competere».

Ecco spiegato l’ingresso in Borsa sul listino Aim..
«Il nostro è stato un collocamento finalizzato esclusivamente a immettere risorse finanziarie in azienda per continuare la crescita.  Nei primi due anni il mercato borsistico italiano ha sofferto, poi sono arrivati i piani individuali di risparmio varati dal governo (sgravi fiscali su investimenti delle aziende più piccole ndr.), quindi l’operazione portata a termine in Cina, dove abbiamo acquistato il nostro principale concorrente asiatico. Gli investitori hanno gradito e il titolo ha recuperato in quattro mesi ciò che in due anni aveva perso. A conferma che il business c’è, basta andarselo a cercare».

Tornando alle vicende di casa nostra, il gruppo Ubi ha acquisito Banca Marche. Per qualcuno il territorio ha perso la sua banca. Per lei?
«Non la vedo affatto così. Nel 2008, dunque con l’avvento della crisi, Banca Popolare di Ancona, già controllata da Bergamo, ha incrementato gli affidamenti nei nostri confronti. Nello stesso periodo, Banca Marche ci comunicava, dall’oggi al domani, la revoca totale degli affidamenti, in quanto preferivano puntare sul settore immobiliare. Se questa è la territorialità, ben vengano imprenditori da fuori regione. Per sostenere il territorio, a mio parere, bisognerebbe avere a cuore le imprese locali, non i potentati locali.  A me basta che Ubi faccia il proprio mestiere, che ha dimostrato di saper fare. Fra l’altro, Jesi diventerà punto di riferimento del centro-sud per il gruppo, se non sbaglio».

Clabo e sport. Qualche anno fa, fra soddisfazioni e delusioni, la Jesina. Oggi, seppur con cifre differenti, l’Aurora basket. C’è intenzione di investire di più sulla palla a spicchi?
«Un’azienda può avvicinarsi allo sport per due motivi: il ritorno economico, che ovviamente, per il nostro business, non può verificarsi, se non in minima parte. O per passione, essendo l’impresa espressione del territorio nel quale vive e opera. Quest’ultimo è il nostro caso. Lo facciamo volentieri, è un piacere dare una mano a una bella realtà sportiva cittadina, ma il nostro impegno non può essere più grande dell’attuale e deve sempre essere inquadrato nell’ambito del pool di sponsor. Ci piace insomma il gioco di squadra. Ci saremo molto probabilmente anche la prossima stagione, ma solo ed esclusivamente con queste logiche».

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