Fabriano

Andrea Zorzi e il suo intendere lo sport a 360 gradi

Intervista con il campionissimo del volley italiano e internazionale. Una persona e un atleta che ha le idee chiare su come deve essere vissuta l'attività agonistica su come quest'ultima possa aiutare la coesione sociale e anche il fare business

Andrea Zorzi durante il convegno a Fabriano

FABRIANO – Andrea Zorzi, uno dei simboli della generazione dei fenomeni del volley italiano. Ma, soprattutto, un personaggio positivo a 360 gradi. Il campionissimo del volley italiano e non solo, ha portato la propria testimonianza al convegno promosso, questa mattina 11 marzo all’Oratorio della Carità di Fabriano, dalle Fondazioni Aristide Merloni e Gabriele Cardinaletti onlus.

Lo confesso, ho esultato come non mai per tutti i vostri trionfi. Ho pianto, ebbene si, per la mancata medaglia d’oro olimpica. La mia prima domanda, in realtà non è una domanda. Ma le dico solo: grazie. Ora, torno ad essere giornalista. Cosa ha significato per lei vivere lo sport a questi altissimi livelli?
«Sono un 51enne che ha avuto la fortuna di vivere in un ambiente straordinario come quello dello sport e del volley in particolare. La pallavolo ha una caratteristica unica fra gli sport di squadra: ti costringe a passare la palla. Per vincere devi saper giocare di squadra e passare la palla. Questo è un segno importante perché oltre a crescere a livello fisico, la tua mentalità cambia e si modella su questo principio, acquisendo una solidità intellettiva importante. Praticare sport aiuta anche a saper ascoltare il proprio corpo, a vivere in sintonia con questo. Ti porta a fare i conti con la realtà, senza se e senza ma».

Andrea Zorzi

Come è vissuto lo sport in Italia?
«Domanda difficile, perché in Italia, gli sportivi sono identificati come le persone ricche e famose-popolari. Ma non è assolutamente solo questo. È un mezzo per crescere come persona a tutto tondo, fisicamente e mentalmente. È un’opportunità di riqualificazione urbana e sociale. Ma è anche saper fare business, viverlo a livello aziendale. E su questo ultimo punto, siamo assolutamente indietro».

È stato difficile appendere le scarpette al chiodo?
«Si e no. Sicuramente l’ho fatto al momento giusto perché ho saputo ascoltare il mio corpo. Lo sport mi ha dato tanto e io ho dato tanto a questo mondo. Adesso sto facendo altre esperienze che mi gratificano altrettanto. Ho fatto il giornalista e, da qualche tempo, mi sono avvicinato al mondo del teatro. Sono un attore teatrale. Ho capito che questi mondi si guardano con una diffidenza sulla quale occorrerebbe riflettere. Vige la regola del reciproco sospetto, da ambo le parti ci sono perplessità. Si parla tanto di rompere i muri e di fare rete e sinergia, ma poi si rischia che rimangano solo buoni propositi. Lo sportivo, parlo per esperienza personale, ha uno svantaggio in più quando si misura con la vita fuori dallo suo ambito. Nel nostro mondo o si vince o si perde, non esiste la via di mezzo. Nella vita, invece, esistono varie tonalità di grigio. Alcune volte, probabilmente, troppe. Ma ci sono».

Il suo messaggio, qual è?
«C’è la necessità per il mondo dello sport di uscire dalla mentalità vittoria-sconfitta perché non conta solo questo. È un cambio di cultura e di mentalità di cui abbiamo, soprattutto in Italia, assoluta necessità. Praticare sport è bellissimo per stare bene a livello personale, per stare insieme a tante altre persone diverse da te, quindi rafforza il confronto. Aiuta ad abbattere gli steccati. Guardiamo allo sport anche per saper fare eticamente business, sapendo valorizzare tutto ciò che ci circonda. Contribuiamo, noi per primi, a fare rete. La strada da percorrere è tanta e lunga, ma se non iniziamo mai…».

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