Cultura

Rom e sinti, tra storia, stereotipi e conflitti sociali

Appuntamento sabato 11 a Jesi con lo storico e ricercatore Luca Bravi, docente presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Firenze

JESI – Il professor Luca Bravi ospite sabato a Jesi per parlare di rom e sinti. Appuntamento alle 17.30 nella chiesa di San Nicolò con la presentazione del libro “Io non mi chiamo Miriam” che tocca parti molto dolorose della storia d’Europa, gettando luce sul destino dei rom durante le persecuzioni naziste e negli anni successivi. Il focus è a cura di uno dei massimi esperti, lo storico Luca Bravi ricercatore all’Università Telematica Leonardo da Vinci di Chieti e docente presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Firenze. L’iniziativa, con il patrocinio del comune di Jesi, sarà condotta dalla presidente dell’Anpi di Jesi Maria Eleonora Camerucci. Autore di numerose pubblicazioni relative alla storia dei rom e dei sinti in Europa legate in particolare ai temi dell’internamento, dello sterminio e della successiva storia della scolarizzazione, Bravi come docente ha scritto: «È da sempre la cultura maggioritaria ad avere avuto in mano gli strumenti di costruzione dei significati; condizione che permette anche di elaborare etichette da applicare, con sguardo etnocentrico, alle popolazioni minoritarie. Nel caso dei rom e dei sinti questo ha significato la costruzione di una etichetta omogenea e totalizzante diffusasi storicamente in Europa ed in Italia, quella dello “zingaro” definito come asociale, straniero e nomade (condizioni che poi portano ad altre caratterizzazioni secondarie che rendono lo “zingaro” anche “ladro per cultura” e “ladro di bambini”) (L.Bravi, N. Sigona, 2009b). Sono le etichette del presente, ma se la scuola non va a scoprire ed indagare le origini di queste caratterizzazioni denigranti, ogni progetto educativo elaborato sulla base dell’immagine di uno “zingaro” rimasto nell’immaginario diffuso come nomade ed asociale, rischia di riprodurre continuativamente quelle immagini che vuole distruggere, perché è da queste ultime che si continua a partire. Ne scaturisce una progettazione che si aggroviglia su se stessa e che crea un cortocircuito culturale che alimenta lo stereotipo e il conflitto sociale».

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