Cultura

Lino Guanciale: «Fabriano… un centro affascinante»

L'attore abruzzese, terminata l'esperienza nella fiction "Che Dio ci aiuti" girata a Fabriano, è tornato in città per un laboratorio teatrale. Ci ha parlato del suo passato e dei progetti futuri.

'attore Lino Guanciale tra Stefano Stopponi e Fabio Bernacconi della compagnia teatrale fabrianese "Papaveri e Papere"
L'attore Lino Guanciale tra Stefano Stopponi e Fabio Bernacconi della compagnia teatrale fabrianese "Papaveri e Papere"

FABRIANO – «La cosa che mi manca di più dopo aver lasciato il set di “Che Dio ci aiuti?”, è di non poter venire a Fabriano così spesso come avveniva negli anni scorsi». A parlare è l’attore Lino Guanciale, che nella fortunata fiction di Raiuno interpretava il personaggio protagonista di Guido Corsi, uscito dalla sceneggiatura all’inizio di questa nuova serie. Ma a Fabriano, seppur per soli tre giorni, Guanciale ci è tornato. Non per recitare come in passato, bensì per insegnare a recitare, in qualità di docente nella “full immersion” chiamata “Giochi di teatro” organizzata dalla locale associazione “Papaveri e Papere”. L’occasione è stata ghiotta per riannodare il percorso artistico del trentottenne attore abruzzese, con uno sguardo ai nuovi progetti.

L’intervista a Lino Guanciale presso la residenza “La Ceramica”

Lino Guanciale, partiamo dall’inizio: come si è concretizzato il tuo avvicinamento alla recitazione?
«Ad Avezzano, dove sono nato, non c’era il teatro, distrutto da un terremoto ad inizio secolo. Fin da piccolo, perciò, sono stato un grande appassionato di cinema. Ricordo che all’uscita dalla sala dopo aver visto “La voce della luna”, dissi a mia madre: “da grande voglio fare Fellini”. Ma quella passione è rimasta a lungo ferma. Mi dicevano che le professioni da lavoro sicuro erano altre: il medico, l’avvocato… A limite avrei potuto pensare di fare il giornalista, magari con l’interesse per il teatro. Successe, poi, che all’ultimo anno delle superiori ebbi l’occasione di recitare in uno spettacolo al termine di un laboratorio scolastico. Interpretai delle poesie di Pablo Neruda e un testo di Stefano Benni. Mi piacque. Sentii il richiamo del palco e iniziai a pensare di costruirci una vita sopra. Rifiutai l’ingresso a Medicina e mi iscrissi a Lettere. Rimasi volutamente un anno senza recitare, per capire se davvero mi mancava così tanto da farne l’obiettivo di una vita. E mi mancava. Per cui entrai all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, quella che, come diceva mia nonna in dialetto, “era la scola de Gasma” – sorride Lino – ma anche di Manfredi, di Panelli… e tutto ha avuto inizio».

Prima di fare tv e cinema, nel tuo percorso artistico c’è stato soprattutto tanto teatro. Qual’è l’interpretazione a cui sei più legato?
«Sono legatissimo a “Il matrimonio di figaro” di Beaumarchais, davvero una bella commedia con la quale ottenemmo grande successo con una giovane compagnia: al teatro Stabile di Torino c’era la fila per vederla».

L’attore Lino Guanciale

Oltre che attore, sappiamo che sei anche un divulgatore di teatro, come conferma la tua presenza in questo laboratorio a Fabriano. Per te, dunque, il teatro è anche una vocazione ad insegnarlo?
«Esatto. E molto probabilmente ho ereditato questa indole didattico pedagogica da mia madre, che era un’insegnante. Mi è sempre piaciuto affiancare alla recitazione anche il lavoro di formazione, la promozione dell’attività teatrale nelle scuole e tra gli adulti amatori. Dirò di più, per me è anche un utile modo di completarmi attraverso il confronto con gli allievi. Tramite il contatto con la passione che ci mettono gli attori amatoriali, si apprende molto. Secondo me, non esiste routine peggiore di quegli attori che recitano esclusivamente per professione».

Un momento del laboratorio tenuto da Guanciale con gli attori amatoriali

Il tuo debutto al cinema arriva nel 2009 e in televisione nel 2011. Teatro, tv, cinema: con quale inclinazione ti avvicini ad ognuna di queste attività?
«La differenza di fondo è questa: il teatro è finto, ma deve sembrare vero; il cinema e la tv sono veri, ma devono sembrare finti. In teatro devi saper gestire il contatto con il pubblico. Il lavoro davanti alla macchina da presa è in parte diverso, ma ha in comune con il teatro il fatto che è necessaria una buona relazione con gli altri attori: la scena è come una partita di tennis».
La serie tv “Che Dio ci aiuti” ti ha portato a risiedere a lungo a Fabriano, soprattutto nella terza serie, dove la città è stata il quartier generale delle riprese. Cosa ne pensi di Fabriano, che hai potuto conoscere così bene?
«Davvero un bel posto, con un affascinante centro storico. Per quanto riguarda la gente, si assomiglia un po’ a quella delle mie parti, il classico esempio centroitaliota: le persone ti si avvicinano con discrezione e sincerità, non si aprono fintamente. La cosa che mi manca di più dopo aver lasciato il set di “Che Dio ci aiuti?”, è proprio di non poter venire a Fabriano così spesso come avveniva negli anni scorsi».
A proposito, come mai si è conclusa la tua esperienza sul set di “Che Dio ci aiuti”, nonostante il grande successo?
«Avevo capito che potevano esserci altre interessanti opportunità professionali da cogliere al volo, che mi sarebbero sfuggite se avessi continuato all’interno della serie. A breve infatti, il 22 febbraio, inizierà ad andare in onda la serie “La porta rossa”, per la quale sono stato scelto come protagonista e nella quale ho avuto la non comune possibilità di interpretare il ruolo di un… fantasma. Si tratta di una fiction raffinata, non tradizionale, con un buon cast e la penna di Carlo Lucarelli come garanzia del testo».
Altri progetti in cantiere?
«E’ praticamente finito il film “I peggiori”, per il cinema, ma non so quando uscirà. Per il teatro, dal 7 aprile a Firenze sarò in scena con “Istruzioni per non morire mai” e poi a Roma in “Ragazzi di vita”».
Vorrei terminare con una domanda al di fuori del discorso strettamente legato alla recitazione. Abbiamo appreso che in passato hai giocato a rugby: sei ancora un appassionato di questo sport?
«Ho giocato per dieci anni, fino all’età di 22, con alcune presenze anche in Nazionale giovanile. Avevo una buona tecnica di base e abilità di placcatura. Ovviamente, arrivato a certi livelli non potevo più essere all’altezza fisica. Il rugby mi ha lasciato disciplina e metodo. E per me è stato utilissimo a superare inibizioni e paure. Il rugby è una grande scuola: uno sport in cui per andare avanti devi passare la palla indietro, sta a significare che si vince solo se si rema tutti dalla stessa parte. Così deve essere il teatro».

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