Cultura

Diamo voce agli invisibili, i professionisti del “dietro le quinte”

Continua il nostro viaggio tra i lavoratori dello spettacolo dal vivo che hanno ridotto o chiuso la loro loro attività. La parola alla costumista e sarta, allo scenografo, all'elettricista teatrale

Bauli in Piazza, la manifestazione di Milano dello scorso 10 ottobre. Foto Andrea Cherchi

La crisi sta colpendo duramente il settore dello spettacolo, che è cultura, intrattenimento, industria e lavoro. Non da oggi, e non solo da questi mesi di emergenza epidemiologica, assistiamo da anni al progressivo impoverimento delle risorse investite nell’infrastruttura culturale del Bel Paese – arte e cultura, cinema e teatri, scuola e accademie – motore di pensiero, crescita sociale e progresso economico. Ogni anno togliendo un pezzettino a questa rete fortemente interconnessa di formazione e creatività, e scivolando noi tutti lentamente verso il pigro consumo culturale ‘on-demand’ da divano o da social network, ci siamo un giorno ritrovati a fare i conti con la realtà più amara, quella del Covid-19 che ha spento d’improvviso le luci dei nostri teatri, cinema, scuole di danza e musei. E allora li abbiamo visti, per una volta, tutti quegli invisibili del dietro le quinte, le centinaia di migliaia di lavoratori legati all’indotto dello spettacolo (artisti, tecnici, autori, registi, imprese di produzione, trasporti, noleggi impianti, imprese di produzione di scenografie e costumi, ditte di manutenzione, ecc.) che compongono la struttura del sistema cultura, determinante per la vita dell’Italia.

Circa 300 i lavoratori che si sono ritrovati ad Ancona per manifestare, il 30 ottobre scorso

Li abbiamo visti, quegli invisibili, il 10 ottobre scorso a Milano quando con la manifestazione “Bauli in Piazza”, 500 persone sono scese in piazza Duomo riempiendola di bauli – quei “flightcase” che ogni giorno le accompagnano nella loro attività – per dare visibilità pubblica a un settore che dall’inizio della pandemia è rimasto a piedi, senza lavoro e senza prospettive future. Nelle settimane successive, e a seguito anche del DPCM che il 24 ottobre scorso ha dato una nuova serrata a questo e ad altri settore nel tentativo di arginare il diffondersi dell’epidemia, i lavoratori dello spettacolo sono di nuovo scesi in piazza per far sentire la loro voce, ed è accaduto anche in Piazza del Papa ad Ancona dove il 30 ottobre si è tenuta la manifestazione di protesta “Assenza spettacolare” organizzata da Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom-Uil per chiedere una nuova legge sullo spettacolo, un tavolo permanente con gli artisti, forme di sostegno economico e regole anti Covid meno penalizzanti per il settore. L’iniziativa ha portato in piazza circa 300 operatori dello spettacolo, un settore che nelle Marche conta circa 6mila addetti, «per la maggior parte precari» hanno spiegato i sindacati.

Jacopo Pace

Mentre continua, in varie forme, la mobilitazione del settore, noi di Centropagina abbiamo voluto dare voce ad alcuni di questi “invisibili”, super-professionisti del dietro le quinte, raccontandone le storie.
Uno di loro è Jacopo Pace, tecnico luci ed audio, cresciuto nella professione prima attraverso il Festival Internazionale Inteatro di Polverigi, poi dal 2013 all’interno della cooperativa Proscenio di Macerata, ed ora in forze dentro Marche Teatro al Teatro delle Muse di Ancona e nelle varie tournée delle produzioni dell’ente.
«Non c’è niente di più precario del lavorare nello spettacolo, con tanti professionisti che lavorano a chiamata e anche piccole partite iva che sono rimaste a zero guadagni dal mese di marzo, perché il teatro da allora ha ripreso a fatica e stava davvero ripartendo da pochissimo – racconta Jacopo -. Quanto a me, mi sento in una situazione privilegiata in questo periodo grazie ad un contratto stagionale con Marche Teatro, che mi permette di lavorare sia in attività di manutenzione che nella produzione di nuovi spettacoli di prosa teatrale in via di costruzione. Di solito seguo le produzioni teatrali in tournée, e quando è scoppiata la prima pandemia stavo seguendo il dittico con la regia di Carlo Cecchi che riunisce due atti unici di Eduardo De Filippo, “Dolore sotto chiave / Sik Sik l’artefice magico”… eravamo al Teatro Franco Parenti di Milano e ci siano dovuti fermare. Quando è arrivato il secondo stop, quello di ottobre, lavoravo sempre al Franco Parenti con la nuova produzione “Passeggiata di salute” con Filippo Timi e Lucia Mascino, regia di Giuseppe Piccioni, avevamo 11 giorni di recite, ne abbiamo fatte solo 4… ».
«La difficoltà principale di questo periodo – continua – è non riuscire ad individuare un orizzonte temporale, nessuno sa fino a quando durerà questa situazione di blocco delle attività, e soprattutto non sappiamo in che condizioni ne uscirà il nostro settore».

Per Jacopo, lo stop imposto dal DPCM del 24 novembre «è stata una conferma della nostra invisibilità. Siamo talmente bravi nel fare quello che facciamo, che all’esterno sembra che il teatro viva ed esista solo quando si va in scena e c’è pubblico in sala. Se si continua a pensare che il teatro vive solo quando c’è serata di spettacolo, in pochi possono comprendere le nostre difficoltà di lavoratori. La mia impressione è che il provvedimento ha preso in considerazione il fatto che il teatro è un luogo in cui va il pubblico, e meno il fatto che è qui si lavora e si produce. Mi è sembrato più un segnale che si stesse facendo qualcosa per arginare l’epidemia, bloccando segmenti produttivi ritenuti poco importanti. Per questo mi sono sentito amareggiato».

Se avessi un megafono, cosa chiederesti a chi vive nella stanza dei bottoni?
«Per mia natura di tecnico silenzioso non potrei mai urlare uno slogan in un megafono. Però direi a chi governa che non neghiamo la gravità della situazione epidemiologica, ma anche di non considerarci dei fantasmi, come ha cercato di far capire la manifestazione ‘Bauli in piazza’ a Milano, in maniera disciplinata e rispettando i distanziamenti sociali. I tecnici sono persone abituate a non fare rumore, è stato bello aver fatto sentire la nostra voce con la forza di una presenza silenziosa e disciplinata».

Roberta Fratini insegna progettazione del costume presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata, è costumista e sarta teatrale, ed anche responsabile della Sartoria del Teatro Pergolesi di Jesi. È una delle poche persone che conosce il segreto della straordinaria abilità di Arturo Brachetti nel cambiarsi d’abito durante i suoi spettacoli, perché da anni segue questo artista in tournée. Collabora con sartorie nella realizzazione del costume teatrale e storico.
«Il secondo stop è arrivato nel pieno della stagione lirica del Teatro Pergolesi – racconta – mentre stavamo per iniziare il montaggio e le prove di una nuova opera, “Notte per me luminosa”, la sartoria era impegnata in un lavoro di messa a misura dei costumi. Chiudere così un’opera non è solo rinunciare a 10-15 giorni di lavoro, ma è tutta una lunga fase di preparazione tecnica ed artistica che salta. Oltre l’amarezza di non poter lavorare c’è stata anche la delusione per un percorso preparato che non si può mettere in campo. Tutto questo mentre venivamo da un periodo anche piuttosto lungo di mancanza di lavoro, a causa della pandemia che ha bloccato il settore dallo scorso febbraio. Nel mio caso non sono rimasta a piedi, per fortuna insegno all’Accademia di Belle Arti di Macerata, ed ho potuto anche lavorare con la Fondazione Pergolesi Spontini. Purtroppo conosco molte persone – artisti e tecnici – che sono rimaste a piedi, ed hanno vissuto grandi difficoltà, economiche ma anche morali. A Jesi avevamo ricominciato a lavorare con grande entusiasmo, c’era un bel clima, e poi ci siano dovuti fermare… un gran peccato…»
«Ora si parla di crisi dei teatri, ma guardando indietro posso dire di vedere un lungo periodo di difficoltà nel settore, ben prima dell’epidemia… Come immagino il futuro? Non troppo roseo… I teatri non investono più nella realizzazione di costumi nuovi, mancano investimenti nella produzione, e di conseguenza le sartorie teatrali stanno riducendo la loro attività».

Ti sei inventata qualcosa di nuovo per dare un nuovo slancio alla tua professione?
«Andando per le lunghe questa epidemia, tanta gente come me sta pensando all’alternativa. Non potendo sostentarmi con il solo insegnamento, sto pensando tra collane ed abbigliamento di progettare una attività tutta mia».

Cosa chiederesti alla politica?
«Forse questa chiusura era inevitabile, ma il fatto è che troppo spesso la cultura viene messa in secondo piano e considerata un lusso. A chi governa suggerisco di venire qualche volta dietro le quinte e vedere chi siamo e cosa facciamo… chiederei ai politici di mettersi nei nostri panni, così che non ci si debba più sentire professionisti di serie B».

Benito Leonori (foto Stefano Binci)

Benito Leonori è uno scenografo di fama internazionale, lavora in festival e teatri in tutto il mondo creando sogni di legno, colori, carta, tessuto e luce. Vincitore con i suoi spettacoli di alcuni Premi Abbiati – l’Oscar della lirica in Italia – è anche direttore tecnico della Fondazione Pergolesi Spontini e direttore degli allestimenti del Festival della Valle D’Itria a Martina Franca.

Anche per lui lo stop è arrivato nel pieno della stagione lirica del Teatro Pergolesi, pochi giorni dopo il successo del dittico “Suite Italienne-Lesbina e Milo” di cui ha curato le scene, e pochi giorni prima dalla realizzazione del secondo titolo, “Notte per me luminosa”, e del terzo, la CircOpera “Sirket”, entrambi sospesi in attesa della ripartenza degli spettacoli aperti al pubblico.
«La nostra è un tipo di professione poco inquadrata, che è diventata sempre più aerea, soprattutto nel caso degli artisti, dunque è un momento difficilissimo. Le tutele verso tecnici ed artisti ci sono a produzione avviata e sospesa ma se la situazione di blocco dovesse persistere tutto il settore dello spettacolo dal vivo potrebbe subire conseguenze molto gravi», spiega.

State pensando ad una alternativa?
«Se questa situazione dovesse durare più a lungo del previsto, credo che bisognerà prendere atto del problema e cercare di immaginare l’uso di linguaggi diversi in attesa di tornare alla normalità. In genere nel mio lavoro ragiono sui limiti che il contesto mi dà e ci lavoro sopra… a volte i paletti per una nuova produzione sono dati dalle scarse risorse economiche, o dalla mancanza di maestranze di un certo livello, in questo caso sono dati dall’emergenza epidemiologica che non consente di fare spettacoli in presenza. Potremmo dunque immaginare progetti nuovi con strumenti diversi da quelli strettamente teatrali, per divulgare quanto facciamo anche a un pubblico che non ci conosce. L’opzione dello streaming di un’opera già andata in scena, o la ripresa tv di uno spettacolo nuovo in teatro come se il pubblico stesse in teatro, per me non è l’opzione migliore, è proprio qui che bisogna pensare ad un linguaggio diverso perché ci si deve confrontare con un pubblico che è altrove, e non più nella tua sala, nel tuo teatro e nella tua ‘tana’. Questo è un quesito da porsi importante perché rovescia molti parametri di relazione. Io non credo che il problema sia cercare uno spettatore diverso, ma offrire allo spettatore, vecchio e nuovo, un punto di vista alternativo».

Suggerimenti e richieste per i nostri governanti?
«Chiederei di darci gli strumenti per continuare a lavorare. Non c’è il pubblico? Allora aiutateci a creare situazioni per continuare a fare il nostro lavoro. Inviterei a non fermare la nostra attività di progettazione perché le sospensioni hanno ricadute molto forti sia dal punto di vista economico che psicologico. Il Teatro è una zona di ricerca che può creare linguaggi nuovi».

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