Cultura

L’attivista e scrittrice Obasuyi presenta il suo primo libro a Falconara: «Così distruggo razzismo e stereotipi»

Parla l'autrice: «Il razzismo passa anche dalle norme giuridiche. E poi perché farsi le foto, in Africa, coi bambini? Se lo facessi io ad Ancona cosa succederebbe?»

ANCONA – Si chiama Corpi estranei. Il razzismo rimosso che appiattisce le diversità. È questo il titolo del volume scritto da Oiza Obasuyi, anconetana con un passato (e un presente) nell’attivismo per i diritti umani.

Lei stessa collabora con varie testate giornalistiche: nel tempo, ha scritto per The Vision, Internazionale, Jacobin Italia e Melting Pot Europa. Classe ’95, nata il 24 gennaio sotto il segno dell’Acquario, Obasuyi è laureata in International Relations all’Università di Macerata e attualmente collabora con la Coalizione italiana libertà e diritti civili nel progetto Open migration.

Oggi, giovedì 29 giugno, alle 18:30, la scrittrice presenterà il suo libro al Caracas di Falconara Marittima (bagni 20). Ad intervistarla, sarà Marco Benedettelli. Ma noi, intanto, le abbiamo fatto qualche domanda…

Dottoressa Obasuyi, com’è nata l’idea di questo libro?
«Essendo una scrittrice freelance che ha collaborato (e collabora) con varie testate giornalistiche online, ho deciso di raccogliere molti degli approfondimenti sparsi in queste ultime in un unico libro. Tali approfondimenti sono stati poi ulteriormente rielaborati per restituire un filo conduttore a un tema così complesso, il razzismo. Ho pensato inoltre che fosse necessario dargli un tono giornalistico e di ricerca, non basato prettamente sulle esperienze personali perché il punto, a mio avviso, era anche restituire dati concreti di quelle che in Italia sono state le ingiustizie, le discriminazioni e gli atti di violenza nei confronti delle persone straniere o di origine straniera, che essi derivino da altre persone o dallo Stato stesso». 

Il titolo del suo volume è: Corpi estranei. Il razzismo rimosso che appiattisce le diversità. In che senso “razzismo rimosso”? Nel senso che non siamo più razzisti perché – appunto – abbiamo “rimosso” il razzismo?
«Razzismo rimosso perché a mio avviso in Italia esiste una rimozione di quello che è stato il suo stesso passato coloniale. Quando si parla di razzismo, si tende a parlare unicamente di forme di schiavitù e segregazione di cui si sono resi artefici Paesi europei come l’Inghilterra, gli Stati Uniti o la Francia. Benché sia evidente che tali Paesi abbiano avuto un ruolo centrale nella colonizzazione e nel razzismo ai danni di interi popoli del Sud Globale, non riconoscere che l’Italia abbia preso parte alle campagne coloniali, specie in epoca fascista, costituisce una rimozione. Il fatto stesso che non sempre, durante le lezioni di storia a scuola, si venga a conoscenza delle atrocità compiute, ad esempio, dal generale Rodolfo Graziani che ad Addis Abeba sterminò un gran numero di persone in Etiopia, è grave. Così come è grave non riconoscere che molti dei retaggi coloniali, modi di dire offensivi e discriminazioni derivano da una mancata decostruzione del razzismo, che non è la semplice aggressione verbale o fisica».

E se dico diritto?
«Il razzismo è anche costituito da norme che di fatto discriminano sistematicamente le persone straniere (o di origine straniera)».

Spieghi…
«Pensiamo alla legge Bossi-Fini che di fatto costringe molti lavoratori e lavoratrici straniere a vivere in un limbo di irregolarità e sfruttamento; si pensi, ancora, alla legge sulla cittadinanza attuale che divide cittadini di serie A e di serie B solo perché, benché si nasca o cresca in Italia, non si è considerati italiani. E c’è chi dirà “basta aspettare i 18 anni”, senza capire che le discriminazioni tra chi è italiano “di sangue” e chi non lo è avvengono comunque ben prima della maggiore età. Infine, si pensi al fatto stesso che di razzismo si parla solo quando avvengono i fatti di cronaca: Alika Ogorchukwu, Emmanueal Chidi Namdi, Soumaila Sako, le persone ferite durante l’attentato di matrice fascista a Macerata, nel 2018, diventano solo numeri senza volto, per poi passare alla prossima notizia. Insomma, c’è ancora moltissimo lavoro da fare».

Questo è il suo primo libro? 
«Per ora, sì».

Cosa vuole provare a trasmettere al lettore?
«Anzitutto, anche se può sembrare un controsenso, la sensazione di scomodità. Uno dei punti principali è proprio mettere in discussione tutto il sistema e la società italiana (prevalentemente bianca), specie quando entra in contatto con persone di varie origini. Nel libro si spazia dalla decostruzione del passato coloniale italiano, alla cultura pop televisiva (con analisi inerenti alle rappresentazioni sempre purtroppo grottesche e disumanizzanti delle persone afrodiscendenti, creando quindi degli stereotipi fuorvianti e ovviamente distanti dalla realtà), alla questione migratoria (con approfondimenti inerenti alle disparità sull’accesso al diritto alla libertà di movimento, alle difficoltà dell’ottenimento di un visto di viaggio per poter venire in Europa senza rischiare la vita).

E cosa c’entrano gli stereotipi?
C’entrano. Si parla anche della decostruzione di tutti gli stereotipi che riguardano i Paesi del continente africano o “LAFRICA”.

Senza apostrofo?
«Sì, tutto attaccato, come se si trattasse di un “Paese” unico e non di 54 Paesi tutti differenti tra loro con altrettanto differenti contesti socio-economici. Ecco, su quest’ultimo punto, metto anche in discussione quel modo di fare tutto occidentale e pessimo di andare nelle zone più povere di una determinata città, per esempio, dell’Uganda, del Kenya o del Chad e scattarsi infiniti selfie con bambini a caso, non si sa a quale titolo, ignorando completamente le norme sulla privacy dei minori. Bambini trattati come souvenir di viaggio, senza capire se chi scatta tali foto abbia almeno ottenuto il consenso dei genitori (ammesso che li abbiano). Ecco, anche questo è un modo di fare dal sapore coloniale e disumanizzante. E ironizzando mi chiedo sempre: ma se io andassi in centro ad Ancona per scattare dei selfie con bambini (ovviamente bianchi) presi a caso per il feed del mio instagram, cosa succederebbe?».

Lei è mai stata vittima di episodi di razzismo? Se sì, mi racconti la sua esperienza (come ha reagito, ecc).
«Penso che sia possibile riassumere il tutto con i classici episodi di microaggressione, ossia quegli stereotipi e pregiudizi basati unicamente su percezioni distorte. Si passa dal fatto che in un supermercato la guardia giurata chieda solo a te di togliere lo zaino e appoggiarlo a terra (anche se, guardandoti intorno vedi persone – bianche – che girano per le corsie indisturbate con le loro borse e zaini); al “come parli bene l’Italiano”, presupponendo che io non lo sia (anche dopo aver conversato per ore in questa stessa lingua); al “ma da dove vieni davvero?” (anche dopo aver detto di essere nata ad Ancona. Non che io mi vergogni delle mie origini nigeriane, ma, come per tutte le persone, mi sembra logico rispondere con la città o Paese di nascita). Detto questo, anche se tutto sommato, per fortuna, non ho mai subito gravissime aggressioni verbali o fisiche, ciò non significa che questi ultimi non accadano all’ordine del giorno ed è importante che sempre più persone di varie origini ne parlino».

Lei è molto giovane: nell’arco di questi anni, è riuscita a trovare una risposta al perché la gente sia razzista? Insomma, in fondo, la pelle non è forse una caratteristica personale al pari del colore degli occhi?
«Il razzismo è una questione sistemica, culturale e istituzionale. Come cerco di spiegare nel libro, uno dei modi cruciali per combatterlo è anzitutto la consapevolezza del fatto che esiste un problema che affligge determinate persone rispetto ad altre (che sia per il colore della pelle, la nazionalità, le origini ecc.). Rendersi conto che l’aggressione razzista ai danni, ad esempio, di una persona poiché di altra provenienza è solo la punta dell’iceberg».

Se lo dovesse definire?
«Il razzismo consiste in quell’esclusione sistemica e classista che non permette il godimento di pieni diritti sociali e civili a tutti i cittadini e tutte le cittadine straniere (o di origine straniera) presenti in Italia. Inoltre, viviamo in una dicotomia, specie se si guarda al giornalismo o alla politica  italiana, in cui “l’immigrato” esiste nella misura in cui è “l’invasore” o “il criminale”  senza alcun tipo di complessità».

La soluzione?
«Occorre anche un cambiamento di narrazione da questo punto di vista, nel senso che nessuno è ovviamente perfetto, ma il razzismo si inserisce nel momento in cui attribuisco alla persona, per esempio, senegalese o marocchina, l’essere criminale in virtù del fatto che appartenga a quelle due nazionalità (solo perché tempo prima altri connazionali hanno, per esempio, commesso un illecito). Questo l’Associazione Carta di Roma lo spiega bene: quale valore aggiunto darebbe  scrivere su un titolo di cronaca che tizio X che non si è fermato allo stop con la macchina è albanese o sudanese? Non è forse qualcosa di sbagliato che commetterebbe chiunque, a prescindere dalla provenienza? Perché ci sembra più grave se lo stesso illecito commesso da chiunque viene commesso da una persona pakistana? Se ragioniamo così, e lancio una provocazione, una donna avrebbe tutto il diritto di pensare che ogni italiano sia un femminicida per natura, dato il numero di omicidi domestici e/o in ambito familiare che vengono segnalati giornalmente. Mentre patriarcato e cultura machista esistono e vanno decostruiti e combattuti come il razzismo, non esiste una “lobby degli immigrati” che punta alla distruzione della “società italiana”. Insomma, consapevolezza, decostruzione delle discriminazioni (a scuola, nei luoghi di formazione del personale, nel settore giornalistico e culturale), ascolto delle persone razzializzate che esprimono la loro esperienza, e infine, ma non meno importante, le mobilitazioni, le forme di protesta, i presidi di solidarietà, quando si può».

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