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Violenza domestica, perché le donne maltrattate non reagiscono: il parere della psicologa

Le conseguenze del maltrattamento cronico da parte del partner rendono difficile la richiesta di aiuto da parte delle donne vittime di violenza domestica

donna triste alla finestra
(Foto da Pixabay di StockSnap)

La violenza sulle donne avviene quotidianamente e in modo trasversale, in ogni classe di età, senza differenze di ceto sociale e cultura. Si stima che il 30% delle donne italiane abbia subito una qualche forma di violenza. La violenza può avere molteplici forme: violenza fisica, violenza sessuale, violenza psicologica, violenza economica, stalking. Nella maggior parte dei casi le violenze avvengono tra le mura domestiche e nella relazione col partner intimo, con effetti devastanti, dal momento che si tratta di una violenza cronica all’interno della relazione più significativa, da cui ci si aspetta amore e protezione.

Lucia Montesi
La psicoterapeuta Lucia Montesi

La violenza domestica si realizza attraverso aggressioni fisiche, obbligo di compiere pratiche sessuali, privazione di cure, di movimento e contatto con l’esterno, punizioni, controllo ossessivo, umiliazione e derisione. Nella stragrande maggioranza dei casi, la violenza domestica è praticata dall’uomo sulla donna. Nella violenza è presente un’asimmetria tra i partner, con uno che tenta di annullare l’altro. Il fine non è solo provocare dolore, ma piegare, sottomettere, annullare la persona.

I maltrattamenti familiari hanno effetti traumatizzanti al pari di eventi catastrofici come disastri naturali o guerre, ma ripetendosi continuamente e invadendo la quotidianità proprio nello spazio in cui ci si dovrebbe sentire al sicuro,  hanno conseguenze ancora più gravi,  provocando una graduale erosione dell’identità della vittima. Il ripetersi continuo della violenza rende infatti la relazione affettiva un’esperienza di traumatizzazione cronica.

Che cosa impedisce di allontanarsi dal partner e di chiedere aiuto? Perché le donne vittime di violenza domestica sono così passive? Non reagiscono, non agiscono, tanto da suscitare in chi osserva dall’esterno rabbia e frustrazione o persino il pensiero “Allora alla fine le sta bene così”. Succede molto spesso che altre donne commentino con un “A me non succederebbe mai”, “Io l’avrei mandato subito al diavolo”, “Se l’è cercata”, considerazioni che possono essere comprensibili quando non si abbiano conoscenze di psicologia della vittima, ma che rendono ancora più difficile per la vittima chiedere e ricevere  aiuto. In realtà, qualunque donna può essere una potenziale vittima.

Sono molteplici le cause che rendono difficile per la donna maltrattata uscire dalla sua condizione:

La relazione all’inizio era gratificante e non lasciava presagire l’evoluzione successiva. Il partner abusante, infatti, nei primi tempi seduce mostrando una buona immagine di sé e un atteggiamento protettivo, si mostra amorevole e premuroso. Solo successivamente, quando ha portato la donna ad essere dipendente da sé, cominciano a comparire segni di irritabilità, malcontento, le prime critiche e le prime colpevolizzazioni.

I sentimenti contrastanti verso il partner: la violenza avviene all’interno della relazione più significativa, perciò si mescolano amore e odio, disperazione e speranza di riconciliazione. Ciò che fa male è confuso, è legittimato e giustificato sia nella persona che subisce sia in chi esercita la violenza. L’atteggiamento ambiguo del partner provoca confusione, alle esplosioni di violenza seguono pentimenti e riappacificazioni e un’apparente riflessione critica sui propri errori, in cicli sempre più brevi che conferiscono sempre più potere al partner violento e rendono sempre più dipendente la donna. Si verifica tipicamente uno schema definito “ciclo della violenza”, in cui al crescere della tensione fino all’esplosione di episodi violenti, si alternano periodi apparentemente felici, in cui la donna si illude che il partner stia cambiando.

La negazione e la minimizzazione della violenza da parte del partner, che giustifica il suo comportamento o ne attribuisce la colpa alla donna. Il partner maltrattante manipola psicologicamente la donna per farla dubitare di sé stessa, della sua stessa percezione e memoria e valutazione della realtà, tanto da farle credere di essere pazza. Un lavoro continuo che induce la donna  a distorcere la realtà, a non riconoscere più l’abuso come tale e a percepirsi come oggetto privo di valore. Si verifica un’inversione dei ruoli per cui è la donna a sentirsi responsabile dell’incapacità del partner di gestire la rabbia. Tutte le sue attenzioni ruotano attorno al partner, tutte le energie sono concentrate nel compiacerlo e nel tentare di prevenire altre violenze. La mente della donna è annullata, è la mente del partner a dominare dentro di sé.

Una condizione di forte isolamento e chiusura verso l’esterno, esito delle rigide regole imposte dall’abusante, che pretende che la donna escluda dal suo mondo progressivamente amici e parenti, che lasci il lavoro, pena l’abbandono: vuole essere lui il solo punto di riferimento. Una trasformazione lenta che porta a non avere più altri punti di riferimento sociali e affettivi, ad essere economicamente dipendente,   a percepire di non avere possibilità di aiuto, a pensare “senza lui io non esisto”. Spesso nascono conflitti con i familiari: nel tentativo di difendere il partner e la propria scelta, la donna si contrappone attivamente allontanandoli. Diventa perciò ancora più difficile chiedere loro aiuto, perché significherebbe ammettere anche di aver sbagliato la scelta.

La paura e il continuo stato di allarme in cui è costretta a vivere: paura per le minacce di violenza e di morte contro di lei, i figli, le persone care, gli animali domestici; paura di perdere i figli in caso di denuncia; paura di non essere creduta. Il partner abusante può coinvolgere i figli mostrandosi a loro come la vittima e portandoli a schierarsi con lui contro la madre.

– La disperazione e lo scoraggiamento estremo, l’impotenza appresa con  la convinzione che a nulla servirebbe fare qualsiasi cosa,  lo stato depressivo conseguente al maltrattamento. La donna vittima di violenza domestica si sente inadeguata, debole e incapace come esito della costante svalorizzazione, è convinta che non ci sia via di uscita e che ogni tentativo non farà che peggiorare la sua situazione mettendola ancora più in pericolo.

La dissociazione: come meccanismo di difesa, la mente della donna maltrattata si distacca dalla realtà. La dissociazione è un sintomo tipico del disturbo post traumatico da stress e consiste nel distaccarsi da ciò che procura dolore e dalle emozioni associate, nel tentativo di proteggersi. Dissociandosi, è come se la realtà dolorosa riguardasse altri e non sé stessi, attenuandone l’impatto.

Questi sono i principali meccanismi alla base delle reazioni e dei comportamenti di una donna vittima di violenza domestica, ma la trattazione esaustiva sarebbe molto più lunga e complessa. Avere consapevolezza di questi aspetti è necessario, perché evita almeno la colpevolizzazione della vittima e rende meno difficile per quest’ultima chiedere aiuto e trovare un orecchio attento e accogliente.

Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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