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Psicologia, la perdita ambigua: il paradosso della presenza assenza nel lutto e nella demenza

La perdita ambigua è il più difficile lutto da elaborare, perché è indefinita e senza risoluzione e non permette di mettere un termine alla sofferenza

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Immagine di repertorio (AdobeStock)

Il termine “perdita ambigua” è stato introdotto per la prima volta dalla psicoterapeuta Pauline Boss per indicare una perdita che non è chiara, definitiva, e che non ha nessuna risoluzione, determinando così una sofferenza che non ha possibilità di chiusura. La natura della perdita è sfumata, non è chiaramente riconoscibile o è complessa da comprendere, è una condizione paradossale di presenza/assenza di una persona cara e costituisce perciò un lutto che rimane irrisolto. Originariamente il termine è stato utilizzato per indicare la condizione dei familiari di soldati dispersi in combattimento, ma può essere applicato a diverse situazioni.

Lucia Montesi
La psicoterapeuta Lucia Montesi

Esempi di perdita ambigua sono la scomparsa di un proprio caro di cui non si hanno più notizie, un proprio caro disperso e mai più ritrovato (in seguito a catastrofi, calamità naturali, atti terroristici, guerre), e soprattutto le malattie come la demenza, le malattie mentali, gli stati comatosi e i danni cerebrali  in cui la persona pur essendo presente fisicamente è mentalmente assente e indisponibile.

La perdita ambigua quindi indica sia quelle situazioni in cui la persona è scomparsa fisicamente senza che vi siano certezze sulla sua morte, e rimane perciò ancora viva psicologicamente nella mente della famiglia, rimane accesa la speranza che sia salva da qualche parte e che un giorno possa tornare, in un’attesa lacerante e una ricerca estenuante, insieme al dolore di non avere un corpo su cui piangere, sia le situazioni in cui la persona è presente fisicamente ma non psicologicamente, non è più quella di prima perché ha perso le sue facoltà mentali, non è più capace di mantenere una connessione emotiva o non riconosce i propri cari, fino alla disgregazione della sua identità. Questa seconda situazione è quella più frequente, ma anche la scomparsa fisica della persona è un’ evenienza tutt’altro che rara, dato che ogni anno in Italia scompaiono circa 3.200 persone. Nella perdita ambigua, pertanto, non vi è alcuna certezza della morte e non vi è alcuna certezza della possibilità che la persona ritorni com’era una volta.

L’ambiguità della perdita può generare confusione, depressione, ansia, incapacità di prendere decisioni, rabbia di non poter dare un nome alla perdita, dolore emotivo, senso di colpa, senso di vuoto, solitudine, conflitti relazionali in famiglia. Il dubbio continuo, la mancanza di certezza sulla presenza o assenza di una persona genera un’angoscia che può essere persino superiore che nella morte: la certezza della morte può essere più accettabile del continuo tormento di non sapere e della mancanza di un senso della fine.

Pur trattandosi a pieno titolo di un lutto, non è però riconosciuto socialmente come tale dal contesto sociale e viene largamente sottovalutata la gravità dell’impatto sui familiari. Se nella morte, in cui la perdita è evidente, esistono rituali simbolici che accompagnano e sostengono i familiari fornendo comprensione, condivisione e vicinanza, nella perdita ambigua questi rituali non ci sono ed è più difficile condividere i propri vissuti con la comunità. Manca l’ufficialità della perdita che consente anche il conseguente inizio del lutto e della sua elaborazione. La nostra società non dà alla perdita ambigua lo stesso valore della morte, soprattutto quando la persona continua a vivere, come nel caso delle malattie neurodegenerative. 

In psicologia, al contrario, la perdita ambigua è considerata la più devastante e disfunzionale delle perdite per l’incertezza e l’ambivalenza che la caratterizzano ed è maggiore il rischio che si instauri un lutto patologico perché il processo di elaborazione è paralizzato: si tratta di un lutto “stagnante” (P.Boss). Purtroppo la persona stessa che vive la perdita ambigua non è consapevole di vivere un lutto- anzi, di più, il più difficile tra i lutti-  e si colpevolizza per i propri sentimenti ambivalenti. Non solo quindi si tratta di un lutto “senza diritti” perché non sancito socialmente, ma anche la persona stessa che lo vive non legittima la propria sofferenza.

Nella demenza, i familiari sperimentano continuamente la perdita della persona che conoscevano e allo stesso tempo devono continuare a fornirle assistenza, senza la speranza che possa migliorare. Vivono il dolore della mancanza di ciò che quella persona era e non è più.

Ogni gesto di cura ricorda che la persona amata non è più in grado di fare quell’attività, ricorda che la persona che conoscevamo e amavamo di fatto non esiste più. Questa percezione è aggravata nelle situazioni in cui la demenza modifica profondamente la personalità, rendendo ad esempio aggressiva e ostile una persona che prima era dolce e affettuosa, o viceversa. Nella demenza avviene una mancanza di riconoscimento reciproco: il malato progressivamente non riconosce più i propri familiari, i familiari non riconoscono più il malato per come si comporta, per quello che dice.

Anche l’andamento imprevedibile della malattia aggiunge altri elementi di incertezza e imprevedibilità. I dubbi su cosa viva il proprio caro con demenza sono uno strazio continuo: mi riconoscerà? Sa ancora chi sono? Mi ama ancora? Soprattutto i familiari in giovane età, come i figli di una persona con demenza precoce, vivono un dolore doppio, perché oltre a perdere un padre, una madre, perdono anche la propria identità in relazione alla persona cara e sono costretti a sentirsi genitori dei propri genitori prima ancora di aver potuto sperimentare in modo normale e compiuto il ruolo di figli.

La reazione di un familiare alla perdita ambigua nella demenza possono spaziare tra i due estremi del comportarsi come se la persona cara fosse già morta e all’opposto il negare l’esistenza della malattia. L’ambivalenza che contraddistingue la perdita ambigua porta a sperimentare un vortice di pensieri e sentimenti contrastanti: da un lato la paura della morte del proprio caro, dall’altra il desiderio di una chiusura di una situazione di grande sofferenza; da un lato la speranza, dall’altra la rassegnazione. Diventa difficile dedicarsi ai propri progetti di vita, ci si sente immobilizzati e soffocati. Nel frattempo spesso amici, parenti e conoscenti spariscono e smettono di dare l’aiuto iniziale, se la situazione perdura a lungo.

Dare dignità e riconoscimento alla perdita ambigua da parte degli altri, dei professionisti, delle istituzioni, della gente comune, rappresenta già un primo fondamentale aiuto. Il solo fatto che la sofferenza venga riconosciuta, che sia identificata come perdita ambigua, aiuta la famiglia a dare un nome a ciò che prova, a non sentirsi in colpa, a sentirsi compresa. Questo permette di trovare un sollievo e di elaborare risposte più funzionali, avviando una riorganizzazione dei ruoli, un’ integrazione del ruolo precedente con quello successivo, un percorso di accettazione di ciò che è irrimediabilmente perduto e di investimento su ciò che è ancora possibile.

Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
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