Benessere

Psicologia, come distinguere normalità e patologia?

Distinguere ciò che è normale da ciò che è patologico in psicologia è complesso, ma alcuni criteri possono aiutarci a capire quando può essere opportuno chiedere aiuto

foresta, strade, bivio

«Quest’ansia che provo è normale per la situazione che sto vivendo, o devo preoccuparmi?», «Mio figlio è solo timido o la sua è una patologia? Devo portarlo dallo psicologo?», «Sto vivendo un lutto ma secondo me la mia reazione non è normale, sto troppo male dopo tanto tempo», «Come faccio a capire se mia moglie è solo triste per la sua malattia o se è caduta in depressione e deve curarsi?». Il problema della differenza tra normalità e patologia è pane quotidiano per noi psicologi ed è un tema complesso persino per noi addetti ai lavori, a maggior ragione ancora di più per le persone comuni. Come si distingue ciò che è normale da ciò che è patologico e quindi definibile come “disturbo”? Sulla base di quali criteri? E come decidere se è necessario un trattamento, che sia psicologico, farmacologico o misto?

Lucia Montesi
La psicoterapeuta Lucia Montesi

La questione di ciò che è normale e ciò che è patologico in psicologia chiama in causa variabili culturali, sociali, morali, storiche e richiederebbe una trattazione immensa, ma in questa sede faremo riferimento a quanto propone il DSM, ovvero il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, giunto alla ^5 edizione, che viene usato in tutto il mondo ed è un riferimento per tutte le professioni della salute mentale.

Comunemente, molti credono che l’espressione “disturbo mentale” indichi solo le condizioni di grave patologia, quelle che solitamente sono identificabili come psicosi, come la schizofrenia. In realtà con “disturbo mentale” ci si riferisce a una gamma molto ampia di disturbi, che vanno, per fare solo alcuni esempi, dal ritardo intellettivo alla depressione, dall’autismo alle fobie, dai disturbi sessuali ai disturbi del sonno, dalla demenza alla bulimia, dall’intossicazione da alcol alla disforia premestruale.

Il DSM-5 definisce infatti il disturbo mentale come “una sindrome caratterizzata da un’alterazione clinicamente significativa della sfera cognitiva, della regolazione delle emozioni o del comportamento dell’individuo, che riflette una disfunzione nei processi psicologici, biologici o evolutivi che sottendono il funzionamento mentale”. Specifica poi che “I disturbi mentali sono solitamente associati a un livello significativo di disagio o di disabilità in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti”.

Ma cosa si intende per “clinicamente significativo”? Come si misura il “significativo”? Il problema principale è che molti disturbi mentali, quasi tutti in realtà, non sono condizioni “tutto o nulla” ma si pongono in continuità con la normalità e occorre decidere arbitrariamente un confine. Il manuale fissa perciò delle soglie basate sul numero e la durata dei sintomi e sul grado di compromissione del funzionamento sociale, ma prevede anche che il giudizio del clinico possa valutare se applicare o meno la soglia prevista, e raccomanda attenzione alle caratteristiche del singolo individuo. Questo significa che esistono dei riferimenti che guidano nello stabilire se siamo in presenza di un disturbo, ma questi vanno applicati in modo non rigido, perché, per quanto accurati e stabiliti sulla base dell’osservazione clinica, restano appunto arbitrari.

Una volta che si sia stabilita la presenza di una patologia, la diagnosi comporta automaticamente la necessità di intervenire con un trattamento? E quando invece il disagio non raggiunge la soglia di disturbo, significa che non occorre un trattamento? No, la questione non è così semplice, perché l’opportunità del trattamento viene ulteriormente valutata sulla base della gravità dei sintomi, della sofferenza della persona, della disabilità, dei rischi e benefici dei trattamenti disponibili. Può accadere che una persona che presenti sintomi non sufficienti secondo i criteri per diagnosticare un disturbo, abbia bisogno e richieda di essere trattata, come l’opposto.

Ma come possono le persone comuni orientarsi nel capire quando un problema psicologico è patologico? Quando, ad esempio, le emozioni negative come rabbia, paura e tristezza cessano di essere normali reazioni e diventano un problema? In generale, applicando alla realtà quotidiana le indicazioni del DSM, possiamo seguire alcuni criteri utili:

  • Il collegamento con gli eventi: più una reazione è scollegata dal contesto, dalle circostanze, dagli eventi che plausibilmente possono provocarla, più è possibile che sia patologica (ad esempio, umore depresso che permane anche in seguito a una notizia felice).
  • La durata: una condizione che è presente per la maggiore parte del giorno e perdura per settimane o mesi, è possibile che sia patologica.
  • La frequenza: una condizione che si ripete più volte, ad esempio un attacco di panico che non sia isolato ma si ripresenti più volte, è possibile che sia un disturbo.
  • La rigidità e l’immodificabilità: il comportamento patologico tende a presentarsi in modo rigido in tutte le situazioni ed è molto difficile modificarlo.
  • La compromissione e il danno: quanto il problema psicologico influenza i vari contesti di vita della persona? Quanto influenza la possibilità di studiare, lavorare, relazionarsi con gli altri? Crea un danno a sé o agli altri? Maggiore è la compromissione, maggiore lo spostamento verso la patologia.
  • Il grado di sofferenza: quanto la persona sente di stare male? Anche se il numero dei sintomi o delle compromissioni non raggiunge la soglia convenzionalmente stabilita, se la persona ha una percezione soggettiva di importante disagio, questo viene considerato rientrante nella patologia.

Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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