Benessere

«Dovrei essere felice, e invece…». Perché non proviamo la gioia che ci aspettavamo

Non sentirsi felici malgrado si viva una situazione piacevole e gratificante fa sentire sbagliati e in colpa. In realtà si tratta di una condizione comune che può avere molteplici spiegazioni

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«Dovrei essere felice e invece non lo sono, cos’ho che non va?», «Ho tutto ma non sono felice lo stesso, perché?», «Ho ottenuto quello che desideravo, eppure non sono felice», «Chiunque sarebbe felice al posto mio, perché io non ci riesco?», «È un momento importante della mia vita, perché non sono felice come dovrei? Mi vergogno anche a dirlo». Molte persone che mi chiedono aiuto percepiscono una dolorosa distanza tra ciò che provano e ciò che si aspettavano di provare, o ciò che credono si debba provare, in certe condizioni della loro vita. Non riescono a trovare una ragione per come si sentono, anzi, la percezione che non ci sia una valida ragione è proprio ciò che li destabilizza, li confonde, li fa sentire in colpa, insinua il sospetto di avere una psicopatologia, o insinua il dubbio terribile di aver sbagliato completamente alcune scelte della propria vita. Il lavoro che facciamo insieme esplorando pensieri, emozioni, aspettative, valori, permette di diradare la nebbia e comprendere l’origine, diversa per ciascuno, di questo penoso stato emotivo.

Risalire all’origine può essere più complesso di altre situazioni in cui le persone arrivano segnalando un problema in qualche ambito della loro vita: qui infatti tutto sembra andare bene, o addirittura perfettamente. Se si avanzano ipotesi per spiegare il suo stato emotivo, spesso il paziente le rigetta immediatamente ribadendo «No, davvero, le dico che proprio non c’è nulla di cui potrei lamentarmi nella mia vita!». Il tenace ribadire che la propria vita sia perfetta può rappresentare una difesa che protegge dal confrontarsi con emozioni e sentimenti scomodi e, come ogni difesa, deve essere gestita con oculatezza da noi terapeuti per permettere alla persona di avvicinarsi gradualmente a contenuti mentali che teme di non poter tollerare.

Le ragioni per cui una persona percepisce una discrepanza tra la felicità che prova e quella attesa possono essere diverse:

Gli obiettivi raggiunti non sono in realtà i propri: sono obiettivi  perseguiti sotto pressione di altri (di solito, i propri familiari) o per avere la loro approvazione o il loro amore, oppure obiettivi proposti dalla società che però non corrispondono intimamente a sé stessi, e perciò non procurano la soddisfazione prevista.

La persona non ha consapevolezza di ciò che realmente desidera e perciò le “manca sempre qualcosa”, ma non sa cosa sia. Sono incredibilmente numerose le persone che non sanno rispondere a una  domanda come “Cosa ti piace?” o “Cosa vuoi?”, perché hanno perso il contatto con la parte più vitale e unica di sé, seppellita sotto sensi del dovere e sensi di colpa. Per poter percepire questo minuscolo germoglio che rappresenta il loro autentico sentire, devono rimuovere strati altissimi di materiale estraneo (desideri e bisogni di altri, in primo luogo) che però nel tempo è diventato parte di sé, tanto da non saperlo più distinguere da ciò che invece è proprio.

Le persone sottovalutano la portata stressante e l’ambivalenza degli eventi piacevoli. Laurearsi, sposarsi, avere una promozione, avere un figlio: sono tutti esempi di eventi considerati unanimemente gradevoli, desiderabili, fonte di felicità e soddisfazione. Sono proprio quegli eventi che le persone mi citano con più rammarico e vergogna: «Ho avuto un figlio e non sono felice…si rende conto di che orrore sto dicendo? Che madre sono?», «Ho avuto il lavoro dei sogni eppure non sono felice…perché faccio così, quando altri farebbero carte false, per essere al posto mio?», «Il matrimonio è una tappa speciale della vita e io mi sento così, c’è da vergognarsi!». In realtà, se andiamo a consultare la Scala degli eventi stressanti di Homes e Rahe che elenca in ordine di intensità decrescente gli eventi di vita in grado di provocare ripercussioni anche gravi sul benessere psico-fisico, troviamo molti eventi che consideriamo desiderabili. Il matrimonio, ad esempio, ha un punteggio stressante di 50 (rispetto a un massimo di 100 assegnato alla morte del coniuge), la gravidanza un punteggio di 40, una “conquista personale” ha un punteggio di 28, persino la vacanza ha un suo punteggio stressante di 13. Perciò, anche gli eventi piacevoli e desiderati comportano cambiamenti, necessità di nuovi adattamenti, nuovi ruoli, nuovi compiti, maggiori responsabilità, decisioni, perdite, rinunce, paura di sbagliare, paura dell’ignoto, sollevando emozioni e sentimenti contrastanti che sono assolutamente normali.

I tempi e i modi di elaborazione degli eventi possono essere diversi da quelli attesi. La maggior parte dei miei pazienti oncologici sperimenta questo tipo di condizione, che genera una discrepanza tra come si sentono e come si aspettavano di sentirsi. Una frase tipica è «Sono guarito/a, va tutto bene, dovrei festeggiare ed essere felice e invece piango sempre, com’è possibile? Sto impazzendo?». In questo caso, lo stato d’animo negativo apparentemente incongruo con la realtà oggettiva di una situazione desiderabile o di una buona notizia, è ascrivibile al percorso psicologico dell’elaborazione della malattia, con la sua normale fase depressiva, che consiste nella presa d’atto di ciò che è avvenuto, e che spesso fa venire a galla tutte le emozioni fino ad allora accumulate. Di solito questa elaborazione non avviene subito dopo la diagnosi, ma dopo un certo periodo che può essere di mesi, e può perciò sovrapporsi alla conclusione delle cure. Paradossalmente, quindi, proprio quando ci si aspetta di essere felici per la fine e/o il buon esito delle cure, la mente si trova invece ad attraversare questa temporanea  fase di revisione di quanto accaduto, con inevitabili sentimenti negativi che fanno normalmente parte del processo di adattamento psicologico a un evento stressante.

Aspettative troppo elevate, standard di funzionamento troppo elevati, perfezionismo:   non ci si sente mai soddisfatti perché c’è sempre qualcosa che si sarebbe potuto fare meglio, e questo meglio si sposta di continuo non trovando mai un limite.

Depressione. Uno dei sintomi del disturbo depressivo è l’incapacità di provare piacere in tutte o quasi tutte le attività per un periodo significativo. Per porre la diagnosi di disturbo depressivo differenziandolo da altre condizioni e stabilire il trattamento necessario è fondamentale rivolgersi a uno specialista.

Una concezione irrealistica di felicità come stato esente da emozioni negative.

Avere raggiunto tutti i traguardi può generare noia. Il fatto di avere tutto, invece che generare una percezione di felicità, può al contrario comportare la noia della routine, della stabilità, della monotonia, della mancanza di stimoli o di sfide.

Paura della felicità. Si tratta di una forma di ansia anticipatoria che porta ad evitare le occasioni potenzialmente felici perché la felicità è vissuta come pericolosa, associata alla punizione: la convinzione è che se sei felice, poi ti accadrà inevitabilmente qualcosa di brutto. Oppure, sentirsi felici per qualcosa è vissuto come una condizione di vulnerabilità, perché se qualcosa poi andasse storto, si soffrirebbe di più: meglio allora precludersi a monte il “rischio” di essere felici e di essere così esposti anche alla possibile perdita della felicità.

Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
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