Cambiare lavoro frequentemente, in media ogni due-tre anni, è una tendenza sempre più diffusa in tutto il mondo soprattutto tra i lavoratori nella fascia di età 25-35 anni, tanto da guadagnarsi una specifica dicitura nella lingua anglosassone: job hopping. Da un lato i cambiamenti nel mercato del lavoro hanno favorito il fenomeno, ma le motivazioni dietro il passaggio continuo da un lavoro all’altro possono anche essere di natura psicologica. Inoltre, se in alcuni casi il job hopping rappresenta una possibilità di evoluzione e miglioramento per la persona, in altri casi è invece la conseguenza della difficoltà a mantenere un incarico lavorativo.
Escludendo i casi in cui passare a un nuovo lavoro è necessario a causa di un licenziamento o di un fallimento dell’azienda, chi cambia spesso lavoro è generalmente spinto dal desiderio di approdare a condizioni lavorative migliori, in particolare:
–Condizioni contrattuali più favorevoli e trattamento economico migliore: per il 40% di chi cambia lavoro, sono i soldi la motivazione principale. Secondo una ricerca di LinkedIn, chi cambia lavoro ogni due anni può guadagnare fino al 50% in più rispetto a chi resta nella stessa azienda per più di cinque anni.
–Maggiori opportunità di crescita professionale e di carriera e maggiore competitività grazie all’ampio bagaglio di competenze sviluppato attraverso incarichi diversi.
–Maggiore appropriatezza del lavoro rispetto alle proprie inclinazioni, attitudini, competenze; maggiore possibilità di una realizzazione personale attraverso un lavoro che rifletta i propri valori.
-Un orario che permetta di avere più tempo per la propria vita personale e familiare.
–Maggiori stimoli e sfide per chi desidera mettersi sempre alla prova.
–Maggiori possibilità di agire e di decidere, maggiore meritocrazia e riconoscimento del proprio impegno.
–Minor stress, minor rischio di burn out.
-Un ambiente lavorativo con maggiore collaborazione e un clima più sereno, sentirsi parte di una comunità o una squadra.
-Costruire un’ampia rete di contatti che possono rivelarsi utili per collaborazioni e opportunità di carriera.
Se da una parte il job hopping offre queste opportunità, dall’altra può comportare degli svantaggi: può in realtà ridurre le possibilità di crescita e di carriera per il poco tempo trascorso nella stessa azienda; un curriculum pieno di brevi esperienze, se non adeguatamente motivate, può trasmettere un’immagine negativa di persona poco affidabile e poco disposta a impegnarsi a lungo termine, poco leale nei confronti dell’azienda, incapace di inserirsi in un contesto lavorativo e di relazionarsi; ogni volta è necessario ricominciare da capo, adattarsi a un nuovo ambiente e farsi apprezzare dai superiori e dai colleghi; instabilità, mancanza di certezze, stress, rischio di periodi senza percepire reddito; competenze troppo superficiali e aspecifiche, perché il breve tempo di ogni incarico non consente di sviluppare una piena padronanza del settore o del ruolo ricoperto.
In alcuni casi, passare da un lavoro all’altro dipende da un’incapacità del soggetto di mantenere il lavoro. Anche in questo caso, le cause possono essere molteplici:
–Ansia da lavoro: può raggiungere un’intensità patologica tale da bloccare il soggetto per il timore di essere inadeguato, di non essere all’altezza, di deludere, di non riuscire a gestire una responsabilità. Rientra in questo ambito anche la sindrome dell’impostore, che induce a dubitare delle proprie capacità e a credere che i propri successi siano dovuti solo alla fortuna.
–Ansia sociale: riguarda la paura del giudizio degli altri e può compromettere la capacità di relazionarsi sia con l’utenza che con superiori , colleghi e sottoposti.
–Altri disturbi d’ansia: ansia generalizzata, attacchi di panico e altre forme di ansia rendono difficile concentrarsi nello svolgere i compiti lavorativi.
–Perfezionismo patologico: avere standard di prestazione altissimi e legare il proprio valore ai risultati comporta un elevato rischio di insoddisfazione e di abbandono del lavoro.
–Eccessiva idealizzazione del lavoro: porta a non essere mai soddisfatti, a cercare ogni volta il lavoro perfetto e definitivo. Rispetto a questo ideale, ogni lavoro è considerato insufficiente e viene abbandonato in una perenne ricerca del lavoro giusto.
–Depressione: uno stato depressivo di varia intensità comporta mancanza di motivazione e interesse alle attività, faticabilità, mancanza di energie, difficoltà di concentrazione e nel prendere decisioni. Questo si traduce in difficoltà a iniziare e portare a termine i compiti, difficoltà a sostenere i ritmi lavorativi, maggior rischio di errori, assenteismo.
–Burn-out: comporta un esaurimento fisico e psicologico, una progressiva perdita di motivazione al lavoro, un atteggiamento distaccato e cinico, dovuti allo stress cronico e ad una sproporzione tra le richieste del lavoro e le energie del soggetto.
–ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività): la difficoltà a mantenere attenzione e concentrazione e l’impulsività possono rendere difficile svolgere e organizzare compiti complessi e compromettere la produttività.
–Difficoltà relazionali: rendono difficile rapportarsi agli altri comportando conflitti, isolamento, difficoltà di comunicazione.
-Immaturità, difficoltà ad assumere responsabilità, tendenza alla dipendenza dagli altri: ogni lavoro viene abbandonato con varie giustificazioni, confidando nella possibilità di essere mantenuti dai genitori o dal/dalla partner.
–Disturbi di personalità: caratterizzano in modo stabile la personalità compromettendo diversi ambiti di vita, spesso anche quello lavorativo. Tutti i disturbi di personalità (sono 10 in totale) influenzano il lavoro, ma il disturbo borderline di personalità è quello più tipicamente associato a difficoltà a mantenere il lavoro. Questo disturbo comporta infatti una marcata instabilità nell’identità e nelle relazioni interpersonali, una tendenza ad autosabotarsi nei propri obiettivi, difficoltà a gestire la rabbia e l’impulsività, difficoltà a regolare le emozioni.
Risulta quindi fondamentale acquisire consapevolezza su quali motivi portano a cambiare continuamente lavoro e a distinguere le motivazioni più sane e costruttive da condizioni che possono segnalare invece un disturbo o un disagio psicologico, su cui si può intervenire con il trattamento più opportuno, di tipo psicologico e/o farmacologico.
Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
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