Benessere

Bambini solitari, quando preoccuparsi?

I bimbi che tendono a stare e giocare da soli suscitano spesso la preoccupazione dei genitori. Cosa li spinge a isolarsi e quando occorre allarmarsi? Risponde l'esperta

bambino solo
Foto di Nana-ne da Pixabay

«Mio figlio sta in disparte, non si unisce mai al gruppo dei compagni», «Fa sempre giochi solitari, mai che giocasse a calcio con gli amichetti!», «Se non lo spronassimo, starebbe sempre vicino a noi adulti», «Cosa dobbiamo fare, forzarlo a stare con gli altri o lasciarlo stare?». Molti genitori mi chiedono come comportarsi con i loro bambini solitari, preoccupati che dietro la tendenza a isolarsi ci siano disagi, e temendo ripercussioni per lo sviluppo dei figli.

Occorre tenere presente che fino a 3 anni i bambini tendono a fare giochi solitari: il gioco a questa età ha la funzione di conoscere il proprio corpo, di saggiarne le capacità, di esplorare l’ambiente. Il bambino piccolo giocando impara a pensare, a fare congetture su come funziona la realtà. Può capitare che giochi vicino ad altri bambini, ma ognuno gioca per conto proprio.
Solo verso i 4-5 anni compare l’interesse a condividere con gli altri, nonché la capacità di interagire, di organizzare un gioco con ruoli, come nel “Facciamo che io ero…”.

Lucia Montesi
La psicoterapeuta Lucia Montesi

La propensione al gioco con gli altri segue perciò uno sviluppo pressoché universale, ma su questo si innestano differenze individuali legate al temperamento e a fattori educativi.
Il temperamento ha un’origine biologica e fa sì che alcuni bambini siano più estroversi e inclini a “buttarsi nella mischia” mentre altri siano più riflessivi e tendenti a mantenersi in disparte.
I fattori ambientali includono invece lo stile di attaccamento ai genitori, lo stile educativo e il modello che i genitori propongono nel loro modo di interagire con gli altri. L’esempio dato dai genitori è infatti un riferimento per il bambino: se i genitori sono i primi ad avere pochi rapporti sociali, a preferire attività solitarie o limitate alla famiglia, a frequentare poco altre persone, a non invitare in casa amici, colleghi o vicini e a non accettare inviti, anche i figli tenderanno ad assumere le stesse modalità.

Fino a che punto è normale che un bambino stia da solo, faccia giochi solitari, eviti di rapportarsi con i compagni? Quando è necessario preoccuparsi?

Alcuni bambini solitari sono definibili come “timidi”. La timidezza è una caratteristica della personalità di per sé non patologica, che comporta esitazione, prudenza e ritrosia. I bambini timidi tendono ad avere rapporti sociali limitati, ad essere più introspettivi e a rispettare maggiormente le regole. Temono il giudizio degli altri e possono avere difficoltà ad esprimere le proprie opinioni. Possono desiderare unirsi al gruppo, ma trattenersi per vergogna o perché non sanno come approcciare gli altri. La timidezza è considerata una caratteristica normale e non è un problema se lo sviluppo complessivo del bambino è equilibrato; non è detto, come molti credono, che un bambino timido soffra sicuramente di bassa autostima.
Tuttavia, possono esserci diversi gradi di intensità. In alcuni casi, quando comporta un’ansia marcata, la timidezza può diventare un disturbo, identificato come fobia sociale, che comporta una compromissione della vita del bambino perché gli impedisce ad esempio di parlare davanti agli altri a scuola, di rispondere al telefono, di andare a fare delle commissioni, portandolo ad evitare le situazioni in cui deve interagire con gli altri. In questi casi, l’interesse per attività solitarie può essere una scusa per sottrarsi a situazioni che teme. Un bambino timido può esitare ad unirsi agli altri ma poi riuscire a farlo, ad esempio se facilitato da un adulto o da un amichetto, mentre un bambino con fobia sociale può manifestare un vero panico.

Alcuni bambini solitari non sono né timidi, né fobici, ma semplicemente hanno uno scarso interesse per i rapporti sociali e preferiscono dedicarsi ad attività solitarie e tranquille. Amano stare da soli ed estraniarsi dal contesto per concentrarsi sul loro mondo interiore, sui loro pensieri e le loro fantasie. Se necessario sanno stare con gli altri, se invitati partecipano volentieri e senza disagio ad attività con altri, ma non è la loro priorità.
Si ritiene che questi bambini non siano mancanti di qualche caratteristica che li porti a socializzare, ma anzi abbiano sicurezza interiore, competenze cognitive, emotive e sociali per cui sono, al contrario, “capaci di stare da soli”. Possono però cominciare a sperimentare un senso di inadeguatezza come esito della reazione dei coetanei e degli adulti, che li considerano anomali o li criticano per il loro modo di essere.

Altri bambini solitari si ritrovano soli perché rifiutati dagli altri perché sono turbolenti, irrequieti, non rispettano le regole e disturbano il gruppo. Hanno scarse capacità sociali e hanno difficoltà a relazionarsi, anche se lo vorrebbero. Il loro isolamento non è perciò desiderato come nel caso precedente, ma subìto e vissuto con dispiacere e senso di esclusione.

Dietro la tendenza del bambino a stare da solo, possono quindi esserci motivazioni molto diverse. Nel prossimo articolo vedremo se e come intervenire e gli accorgimenti con cui i genitori possono incoraggiare i bambini a socializzare o aiutarli ad interagire con gli altri con minor disagio.

Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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Tel. 339.5428950