Benessere

Bambini diabetici, cosa significa vivere con una malattia cronica

Una diagnosi di diabete in età infantile è un evento altamente stressante e richiede a tutta la famiglia un lungo processo di adattamento psicologico

In età evolutiva, la forma di diabete più diffusa è quella di tipo 1 insulino-dipendente, caratterizzata da un’assenza assoluta di insulina che impedisce all’organismo di assimilare gli zuccheri. Con il diabete si può convivere e si può condurre una vita normale, ma innegabilmente la terapia è impegnativa perché richiede la somministrazione di insulina, controlli della glicemia, particolari accortezze nell’alimentazione e nell’attività fisica. Richiede quindi grande attenzione in pratiche che inizialmente i bambini non possono padroneggiare da soli, anche se l’obiettivo è che diventino capaci di farlo.

Ricevere la diagnosi di diabete è un evento altamente stressante per il bambino e per i genitori e la gestione quotidiana della malattia richiede un significativo cambiamento delle abitudini familiari, all’inizio fortemente destabilizzante. Il diabete si ripercuote su tutte le aree di vita del bambino ed è una condizione cronica, pertanto l’adattamento psicologico richiesto a tutti i componenti della famiglia è molto consistente. L’accettazione della malattia è l’obiettivo a cui tendere, sia per il bambino che per i genitori, ma è il punto finale di un percorso emotivo lungo. Inizialmente la diagnosi produce uno choc, un rifiuto della malattia e della terapia; quindi esplodono emozioni di rabbia e paura; è poi il momento della contrattazione, un venire a patti con la situazione attivandosi; quindi prevalgono la tristezza e la consapevolezza della perdita che la malattia comporta; infine può verificarsi l’accettazione, accompagnata dalla riorganizzazione e la costruzione di un nuovo equilibrio. Questo percorso avviene sia nel bambino che nei familiari.

Lucia Montesi
La psicoterapeuta Lucia Montesi

I bambini diabetici devono essere educati all’autogestione, che possono praticare dai dieci anni circa, mentre i genitori assumono progressivamente solo un ruolo di supervisori. Anche quando la diagnosi arriva in età molto precoce, i bambini devono in ogni caso ricevere informazioni chiare e realistiche sulla loro condizione. Non bisogna mai mentirgli o nascondere ciò che accade, per poter instaurare un rapporto di fiducia sia con gli operatori sanitari che con le figure che si prendono cura di loro. Hanno bisogno di capire cosa accade nel loro corpo, anche attraverso il gioco, i disegni, i libri, le favole.

L’atteggiamento dei genitori ha un impatto cruciale: il modo in cui bambini e ragazzi vivono la loro malattia è in gran parte un riflesso del vissuto dei familiari. I genitori vivono la diagnosi come drammatica: vedono all’improvviso il figlio sofferente, e con una malattia che durerà per sempre. La malattia minaccia la sicurezza in sé come genitore capace di prendersi cura del figlio e proteggerlo, solleva sensi di colpa irrazionali per non aver saputo evitare al figlio la malattia, per non aver messo al mondo un figlio sano, e ancora di più provoca senso di colpa e uno straziante conflitto interiore quando essi stessi si trovano a dover infliggergli procedure dolorose. I genitori devono investire una grande quantità di energia nella gestione terapeutica, spesso dormono poco, sono affaticati e irritabili, costantemente preoccupati dell’ipoglicemia. Sono frequenti senso di impotenza e di inadeguatezza, vergogna, solitudine, rabbia, frustrazione e depressione per tutte le limitazioni connesse alla gestione della malattia. Come meccanismo di difesa, si può verificare una reazione di negazione della malattia o di minimizzazione, che può essere molto pericolosa. Anche un’ eccessiva precisione e scrupolosità possono essere strategie per tenere a bada l’ansia, ma possono diventare ossessive e limitanti. D’altra parte, alcune famiglie riportano come benefico un maggior clima di unione, accanto ad abitudini più salutari e a una maggiore maturità sviluppata dal figlio in seguito alla malattia. Nella maggior parte dei casi, i genitori rappresentano un fattore protettivo, in grado di mediare e di aiutare ad elaborare la malattia, di fare in modo che il figlio non si senta malato o diverso.

Fratelli e sorelle possono subire una temporanea minor disponibilità dei genitori, concentrati nella cura del figlio malato. Possono provare rabbia, gelosia, senso di abbandono, senso di colpa per il fatto di essere sani, iper-responsabilizzazione. Anche loro devono essere coinvolti e ricevere informazioni chiare sulla malattia, in modo da poter capire cosa accade, capire come possono contribuire alla gestione della malattia ed esprimere i propri bisogni.

Le ripercussioni psicologiche nei piccoli diabetici sono comuni soprattutto in coincidenza della diagnosi, momento  in cui i bambini devono essere sottoposti in modo particolarmente intensivo a visite ed esami. L’ospedalizzazione, soprattutto, può essere altamente stressante per un bambino. Si possono presentare regressione, ricerca del genitore, irritabilità, irrequietezza, ansia, calo del rendimento scolastico, vissuto di perdita di controllo sul proprio corpo, paura (di morire, di avere danni permanenti, di perdere l’autonomia; la paura dell’ospedale, della separazione dai genitori e dal proprio ambiente). Può accadere che la dipendenza dall’adulto prosegua anche quando ormai il bambino ha un’età adeguata per diventare autonomo, e resti perciò passivo mentre i genitori hanno difficoltà ad abbandonare il proprio ruolo e restano troppo protettivi. Quando il diabete insorge nei primi anni di vita, può essere maggiormente accettato perché non c’è un “prima” con cui confrontarsi, è vissuto come una propria caratteristica; il bambino non si sente quindi “malato”, ma il disagio che sperimenta è legato piuttosto ad aspetti concreti delle esperienze.

Gli adolescenti diabetici possono risentire maggiormente delle limitazioni dovute alla malattia, soprattutto nel confronto con i coetanei. Il diabete crea una situazione di dipendenza, in contrasto con la spinta all’autonomia di questa fase vitale. Proprio in una fase in cui tipicamente si sperimentano trasgressione, comportamenti azzardati e rischiosi, l’adolescente diabetico deve necessariamente essere responsabile su molti aspetti, come l’assunzione di alcol, il ritmo sonno-veglia, l’alimentazione. Può succedere che i ragazzi sfidino il limite ritardando l’assunzione di insulina, non eseguendo i controlli, affermando così la propria identità in opposizione alla famiglia e ai sanitari, oppure che cedano alle pressioni del gruppo conformandosi ad esempio all’uso di alcolici. Il diabete può intensificare anche problematiche tipicamente adolescenziali come scarsa autostima, ansia sociale, preoccupazioni per l’aspetto e il peso. Può accadere anche che l’adolescente addebiti al diabete tutte le difficoltà che sperimenta e si senta diverso e vittima di ingiustizia. Gli adulti hanno il compito di assistere i ragazzi in questa fase, dosando il proprio intervento, non lasciandoli a sé stessi in un momento in cui hanno ancora bisogno di una guida ma allo stesso tempo manifestando fiducia e supportandoli nella responsabilizzazione.

Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta

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Studi a Piane di Camerata Picena (AN) e
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