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Quel Natale del ’56. Una storia vera

Il racconto di un nonno ai suoi nipotini. I ricordi di quando da bambino, tornato dal collegio dei Salesiani di Ancona al suo paesino, la magia natalizia era rappresentata dai semplici valori

paesaggio marchigiano innevato
Paesaggio marchigiano innevato - Foto di milito10 da Pixabay

Ho ascoltato mio padre che raccontava ai figli miei e di mio fratello un Natale particolare, come avevano chiesto i nipotini. Siccome con noi figli è avaro di ricordi della sua infanzia, mi ha sorpreso l’arrendevolezza verso i nipoti. Dopo averci pensato alcuni interminabili secondi (chissà quanti Natali particolari ha vissuto), ha iniziato a parlare con i nipotini sdraiati sul tappeto, il caminetto della sala che bruciava tranquillamente.

Ho detto agli altri di non disturbarli, ho fissato con lo scotch il piccolo registratore vocale sull’angolo della porta, l’ho attivato e me ne sono andato. L’ho riascoltato la sera, da solo, quel racconto di mio padre, un po’ preoccupato in verità perché le bimbe, alla mia richiesta di cosa si erano detti, mi avevano risposto con un «ma il nonno da piccolo viveva in Alaska?».

In collegio dai Salesiani
«Avevo undici anni nel 1956, ero in collegio dai Salesiani di Ancona, e la prima media era dura, ma eravamo elettrizzati perché il 24 dicembre saremmo tornati a casa nostra. Era un dicembre molto freddo e la neve si era fatta vedere anche in Ancona». Iniziava così, mio padre, perché – per lui – un Natale senza neve non vale la pena di essere festeggiato. Una fissazione la sua.
«Il cappotto rigirato faceva ancora una figura decente, i pantaloni alla zuava, gli spessi calzettoni, gli scarponi e un cappello forse ricavato da un tessuto militare completava il tutto. Mi accompagnarono alla stazione e poi sul treno dove raccomandarono a un controllore di farmi scendere a Castelplanio». «Io presto andrò in Polonia da solo» interruppe mio nipote subito zittito dalle cuginette.

Il ceffone di mia madre
«Stavo con il naso appiccicato al vetro del finestrino nel vagone semivuoto del treno a carbone che sbuffava a pieno ritmo ma che fermava in tutte le stazioni, dove le persone si auguravano il Buon Natale anche se non si conoscevano. Man mano che ci avvicinavamo a Jesi, la campagna s’imbiancava e la gente, nelle stazioni, si raggomitolava in cappotti, sciarponi e guanti di lana.
Quando vidi il nostro paesello seminascosto tra colline e boschi la neve scendeva copiosa e la mia gioia incosciente cresceva. Le strade erano ancora libere e la piccola corriera dopo pochi minuti arrivò vicino casa e mi fece scendere. Corsi sopra il terreno dove la neve attacca prima, scivolai, caddi, mi bagnai mentre ridevo felice. Mia madre con un ceffone rimise le cose al loro posto».

La semplicità delle campane
«Ma nonno, tua mamma era crudele, non si picchiano i bambini!» contestò la nipotina più grande subito zittita dagli altri due.
«Era ora di pranzo e mio padre tornò a casa dal lavoro e si preoccupò subito per la poca legna di scorta che c’era. Mi disse di andare con lui mentre con la mano aperta mi scompaginava i capelli ricci. Cappotto, cappuccio e via, tra le proteste di mamma che temeva lo rovinassi. Poco distante c’era la catasta e prendemmo la legna che serviva, mentre le campane della chiesa grande suonavano a festa. Rimasi come paralizzato e babbo dovette spingermi per farmi rientrare a casa. Era affascinante il suono delle campane, c’erano tre giovanotti a suonarle, lassù proprio sotto le campane, nel freddo glaciale. Erano bravissimi».

A cena si invitava chi era solo
«Quando si fece buio smise di nevicare e il vento freddissimo polverizzava la neve. Alle 23 iniziava la Messa di Natale e nessuno voleva mancare. Io ero uno dei chierichetti, mia sorella nel coro, mamma con le donne e babbo in fondo, con gli uomini, perché allora usava così. Un piccolo presepe illuminato da candele ci pareva un’opera d’arte. I canti, la focosa predica del parroco, la comunione e poi tutto era terminato, con le campane che continuavano a glorificare la nascita di Gesù».

«Tutto qui, nonno? E il cenone, i regali, il panettone?» chiese la sorella più piccola. «No, allora non si faceva il cenone, tutt’altro, si mangiava poco e niente carne per essere vicini a Maria e Giuseppe nella capanna di Betlemme». «Ma dai, nonno, mica è vero che nevicava a Betlemme, laggiù in Palestina non nevica mai» interruppe ancora la tremenda nipote. «No, quando è nato Gesù nevicava sulla collina che domina Betlemme, hai capito?» sbuffò stizzito mio padre. Poi proseguiva: «l giorni di Natale, invece, c’era il brodo, i vincisgrassi, l’arrosto e il ciambellò».

Mio padre non era certo ricco, ma a Natale invitava a pranzo una o due persone a cui nessuno l’avrebbe preparato.

Il Sony rimase muto. Mia madre mi raccontò poi che i tre bambini erano usciti dalla sala contestando ancora il Natale del nonno, subito presi a chiedersi quanti e quali regali avrebbero ricevuto. Poi, la piccola aveva preso la mano della nonna chiedendole «perché non invitiamo anche noi, il giorno di Natale, qualcuno a cui nessuno lo farà?».

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