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Interruzione volontaria di gravidanza, la testimonianza di una giovane donna

Il racconto delle tante difficoltà incontrate in Regione successivamente alla decisione di abortire. A parlarne è colei che l'ha vissuto sulla propria pelle

«Sono una giovane donna. In questo periodo mondialmente assurdo mi sono ritrovata a dover gestire una gravidanza indesiderata e oggi, da qui seduta nella mia stanza d’ospedale, mi sento in qualche modo chiamata a rendere pubbliche alcune delle riflessioni fatte nelle ultime settimane». Inizia così la lettera inviata in redazione da una persona che, per ovvi motivi, intende rimanere anonima. Ha compiuto legittimamente una scelta, ma non è stato per nulla facile, stando al suo racconto, gestirne le conseguenze.

«Sono entrata al consultorio con la volontà di procedere con l’Ivg farmacologica, il metodo più utilizzato in nord Europa e che permette alla donna di attivarsi in tempi più brevi, senza anestesia e rischi operatori, consapevole che non sarebbe stata una strada in discesa – ricorda -. Sapevo infatti che nell’ospedale della mia città non si praticava l’interruzione farmacologica e sapevo anche della situazione d’inadeguatezza generale nelle Marche, la mia regione, sia per l’alta percentuale di obiettori sia per i pochi ospedali organizzati per la RU486, nonostante in Italia sia approvata ormai dal 2009 (10 anni fa). Ho dovuto ripetere due volte le analisi per i valori ancora troppo bassi del Beta-hCG. Poi anche il consultorio mi ha dovuta rivisitare più volte, a distanza di alcuni giorni, prima di poter certificare la gravidanza».

La gestazione, spiega sempre la diretta interessata, «viene confermata e datata solo quando l’ecografia mostra le evidenze. Così ho perso un’ulteriore settimana di tempo rimanendo, di fatto, con tempi ristrettissimi per accedere all’interruzione farmacologica. In sostanza la situazione è questa: in Italia la RU486 è somministrata ancora solo entro la settima settimana, ma prima della quinta è praticamente impossibile che si riesca a certificare la gravidanza con ecografia….Solo io mi accorgo che così “qualquadra non cosa”? Intanto, per provare ad avvantaggiarmi, avevo chiamato ripetutamente il consultorio marchigiano indicatomi per l’interruzione farmacologica cercando di guadagnare tempo fissando magari già un appuntamento: per quattro giorni ho provato, il telefono squillava, poi passava una musichetta che avrebbe dovuto rilassarmi per poi lasciarmi con un “beep” da linea interrotta».

Per ragioni Covid, prosegue il racconto della donna, «ho avuto la premura di non presentarmi di persona senza appuntamento e mi sono semplicemente affidata al consultorio del mio paese, pensando, forse ingenuamente: “ma tanto si parleranno tra consultori marchigiani, no?!” Immaginate ora la mia espressione quando, finalmente certificata la gravidanza (comunque con soli due giorni utili di tempo per non uscire dalla scadenza della settima settimana), il ginecologo mi propina un foglio con lo stesso numero fantasma che avevo chiamato per giorni, dicendomi che per proseguire dovevo telefonare personalmente il prima possibile. Credo di aver perso colorito, poi riavuta ho calzato i miei indumenti da amazzone e ho preteso, spiegati anche i precedenti, che fossero loro stessi a chiamare, magari attraverso un numero interno, per farmi da ponte. Niente. Era impossibile, a quanto pare non esistono numeri interni…Chissà quale antica faida può esserci stata, quale onta, quale lite ancestrale, se un ospedale per contattare un altro ospedale della stessa provincia si ritrova ad usare i numeri verdi dei poveri, comuni, miserevoli cittadini. Insomma, ottengo solo di provare a telefonare insieme. Quindi mi ripresento il giorno dopo ma già con l’amaro presentimento che tanto nessuno avrebbe risposto: avremmo solo ascoltato qualche minuto di fastidiose canzonette e poi il “beep”. La segretaria del consultorio, quando le spiego che il giorno prima il dottore mi aveva detto di venire per telefonare al consultorio di riferimento per l’RU486, mi guarda come si guarda un piccolo gattino ingenuo appena uscito da sotto un cassonetto dell’indifferenziata e mi dice che tanto, a quel numero, non rispondono quasi mai, lo sanno tutti. Ah vabè, se lo sanno tutti allora tutto bene. Quindi dopo aver telefonato come sanno tutti senza successo, la segretaria cerca di convincermi a fissare comunque, in previsione del buco nell’acqua, un appuntamento per l’interruzione chirurgica nella mia città, dopo quasi un mese di tempo. Eccomi allora che sfilo dalla borsa, per la seconda, forse terza volta, il vestito da amazzone: farfuglio qualcosa, chiedo spiegazioni, poi capisco che è davvero inutile. Lei non è disponibile ad aiutarmi, non so se per incompetenza, poca volontà o reale impossibilità, ma è inutile. Allora mi alzo, salgo in macchina e faccio la strada per recarmi personalmente dai fantasmi».

Intanto, puntualizza la diretta interessata, «con il cuore in gola per la reale paura di uscire dalle sette settimane e dovermi poi quindi realmente sottoporre, chissà quando, ad un intervento chirurgico, telefono anche ai consultori fuori regione. In Emilia-Romagna rispondono: sono pieni, i tempi sono stretti, il Covid è un disastro, ma mi lasciano un numero per fissare l’appuntamento e provare poi ad inserirmi. Nel mentre, ancora vestita da amazzone arrivo al consultorio dove anche se vestiti di bianco, scopro
che i fantasmi non erano fantasmi, anzi: ho trovato una ginecologa splendida, capace, professionale e disponibile. Lì nessuno risponde perché non c’è proprio il tempo materiale per alzare la cornetta e probabilmente nessuno paga per potenziare il servizio. La ginecologa “fantas-magorica” mi trova uno spazio in ospedale per la farmacologica, intuisco che fa qualche salto mortale con avvitamento ma ci riesce. Ed ecco che davanti a lei, in piena visita, mi si sbottona il vestito da amazzone e scoppio a piangere. Sono stanca. Durante le visite e le telefonate che non conto più mi sono anche sentita dire cose come: “Signorina, ma tanto siamo sotto le feste”, come se le donne a Natale e a Pasqua smettessero di essere incinta. Io comprendo perfettamente le difficoltà della situazione emergenziale, comprendo i difetti umani, li ho anche io, ma non posso giustificare la carenza di un servizio che è un nostro diritto, per cui si è
lottato e per cui paghiamo».

La mia, ci tiene a sottolineare la giovane donna, «non è una denuncia, non mi interessa fare nomi o puntare coltelli alla gola. Il mio è solo un monito, cerco di far suonare un campanello d’allarme, di riportare uno spaccato di verità: secondo me così non può andare bene, possiamo sicuramente fare di meglio. Mi ribolle il sangue se penso che io ho potuto vedere garantiti i miei diritti perché ho tirato fuori le unghie per averli, perché ho rotto le scatole, perché ho perso un sacco di tempo e risorse. Ma se una donna non avesse le conoscenze per difendersi? Se non avesse il tempo e gli strumenti per lottare? Ma dove siamo? In uno stato di diritto o nella giungla?! Io, insomma, sono una privilegiata; assurdo no? I dati parlano chiaro: nelle Marche solo il 6% delle donne accede all’Igv farmacologica e a livello nazionale solo il 20,8%. Interrompere una gravidanza è impegnativo, io non ho trascorso settimane da cartolina, e trovo ingiustificabile complicare, per negligenza o incompetenza che sia, una situazione umana già tanto delicata. Sentire inoltre in questi giorni un’assessora della giunta regionale, tra l’altro alle pari opportunità, donna, fare strane affermazioni sul restringimento della possibilità di accesso all’interruzione di gravidanza farmacologica mi fa accapponare la pelle. Invece di parlare di come potremmo migliorare, di come adeguarci alle linee guida, di come attuare il prolungamento dell’accesso fino alla nona settimana, si sta ancora mettendo in discussione un diritto fondamentale.

Come si può davvero pensare, si chiede l’autrice della lettera, «che il rispetto per la vita possa passare attraverso l’imposizione della maternità? Non confondiamo continuamente cause con effetti. La superficialità e l’irresponsabilità (con quali parametri dovremmo poi giudicarli rimane un mistero) con cui alcune donne potrebbero, forse, accedere al servizio non ha nulla a che vedere con la legittimità del diritto in sé. Investiamo quindi sull’educazione sessuale e sentimentale invece di riesumare la caccia alle streghe e le crociate. Possiamo davvero fare di meglio. In Italia il maggio 1978 con la legge 194 sancisce il diritto per le donne di interrompere una gravidanza entro il 90° giorno per ragioni di salute fisica e psicologica, per questioni economiche, materiali e familiari. Quando si parla di salute psicologica e fisica si parla di diritto universale alla salute riproduttiva e del diritto per le donne di potersi determinare decidendo anche in merito alla propria procreazione. Prima del 1978 l’interruzione di gravidanza era un reato penale, sia per la donna sia per il medico che la praticava. Le gravidanze venivano interrotte ugualmente, ma di nascosto, clandestinamente, con tutti i rischi e le disgrazie connesse. Ad oggi sono passati 40 anni».

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