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Gli scout del Kolbe in Sicilia con i migranti

«Vivere o morire per questi ragazzi della nostra età è solo questione di fortuna», spiegano i protagonisti dell'iniziativa. Il loro racconto

Il Clan Lacio Drom

JESI – Hanno trascorso una settimana in Sicilia ventisei ragazzi tra i 17 e i 21 anni e tre educatori del Clan Lacio Drom, uno dei gruppi Scout Jesi 6 della parrocchia San Massimiliano Kolbe. Arrivati a Catania da Falconara, hanno vissuto cinque giorni nei centri di accoglienza per i migranti di Pozzallo. A raccontarci questa esperienza sono Martina Bufarini, Sara Fantini, Annalisa Gabrielli, Marta Lupinetti, Laura Rocchetti e Margherita Mencarelli insieme agli educatori Costanza Fabbracci e Riccardo Staffolani.

Come è nata l’idea di partire per questo viaggio?
«Durante l’anno il Clan ha affrontato un capitolo dedicato al tema dell’immigrazione e del populismo – raccontano –. Ci siamo divisi in gruppi, ogni formazione faceva delle ricerche sull’argomento e poi esponevamo i risultati a tutti. Abbiamo incontrato gli operatori del Gus di Jesi che ci hanno fornito altre indicazioni e visto con i nostri occhi alcune realtà del nostro territorio. Quindi la decisione di vivere la route estiva dove il fenomeno migratorio fosse più presente».

Così siete partiti e arrivati a Pozzallo…
«Sì, dormivamo nella palestra di una scuola media. Abbiamo visitato l’hotspot, una struttura portuale che accoglie per un lasso di tempo determinato le persone che arrivano. Qui stazionano soccorritori e forze dell’ordine che forniscono aiuto e prima assistenza. Al nostro arrivo non c’erano molti ospiti ma ci hanno detto che l’affollamento dipende dagli sbarchi».

Voi in che strutture avete svolto il servizio e cosa facevate?
«Due gruppi sono andati in un centro di prima accoglienza per minori stranieri non accompagnati; un altro, invece, in un centro per maggiorenni in attesa dei documenti. Più che altro facevamo compagnia a queste persone, condividevamo del tempo insieme. Quando facciamo servizio alla Caritas il nostro è un aiuto pratico, in questo caso non lo è stato: trascorrevamo le giornate insieme, giocavamo al mare, organizzavamo pranzi o cene per stare insieme. Quello che ci ha più colpito è che si è instaurato un clima amichevole nonostante il poco tempo a disposizione. Quando siamo andati via eravamo dispiaciuti». Cosa vi ha colpito di questi cinque giorni?
«Abbiamo notato che molti avevano contatti con la gente del posto mentre altri ci hanno detto di non sentirsi integrati. Una signora quando giocavamo in spiaggia ha cercato di farci una foto – racconta Laura – come se quello che stavamo facendo non fosse normale. Soprattutto i più giovani ci hanno raccontato il loro viaggio: non scappano solo dalla guerra, ma dalle dittature, dalla fame e dalla povertà. Un ragazzo del Burkina Faso ci ha raccontato di aver attraversato il deserto con un amico che ha perso durante il viaggio. In Libia è stato arrestato e minacciato di morte se i suoi familiari non avessero inviato dei soldi che gli sarebbero serviti per comprare un gommone. Una volta saliti sul gommone non sanno dove andare: non hanno cibo, non hanno acqua, sono debilitati, e navigano quando va bene pochi giorni. I più fortunati incontrano la “Grande Nave” così la chiamano che salva i superstiti. Tutti ci hanno detto che arrivare in Italia vivi è questione di fortuna, solo questione di fortuna».

A raccontarvi questi viaggi disperati sono stati ragazzi della vostra età?
«Sì e questa è la cosa che più colpisce: pensare quello che hanno già vissuto alla nostra età. Leggere una storia o sentirla raccontare non fa lo stesso effetto che ascoltarla dalle loro parole (parlavano italiano, ndr) e leggerla nei loro occhi. Per loro è un continuo dover ricominciare daccapo – sottolinea Marta – Andare via dall’Italia significa dover ricominciare tutto, lavoro e amicizie, non è semplice».

Cosa vi ha lasciato questa esperienza?
«Chiunque vedendo e vivendo quello che abbiamo visto noi accoglierebbe  – dice Annalisa – Alcuni non vedono le persone, si fermano al colore della pelle. Siamo tornati ancora più sensibili al tema: troppo facile parlare non sapendo cosa c’è dietro. Molti di loro (nella struttura per maggiorenni, ndr) sanno fare molti lavori manuali ed hanno trovato un impiego: non sono venuti in Italia per divertirsi. Ricevono un poket money di 2,50 euro che si traduce in buoni pasto e il telefono lo usano per contattare la famiglia di origine. Mi ha colpito la grande attenzione che hanno avuto per noi – continua Margherita – ci tenevano a farci sentire a casa ad offrirci cibo e ospitalità. Sono dispiaciuti di vedere diffidenza nei loro confronti – conclude Martina – vogliono integrarsi e più che essere gentili non possono fare».

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