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Dalle singole vite al film. Ecco “Homeward bound – Sulla strada di casa”

L'hotel House di Porto Recanati, con le vite di alcuni adolescenti che ci abitano, al centro del lungometraggio "Homeward" di Giorgio Cingolani e Claudio Gaetani

Making the scene: a sinistra Cingolani che sostiene l'attore, a destra Gaetani

PORTO RECANATI – Giorgio Cingolani e Claudio Gaetani sono i registi di “Homeward bound – Sulla strada di casa”, film documentario in cui racconta da vicino la vita e le vicende degli adolescenti che vivono nel grattacielo multietnico di Porto Recanati: l’hotel House. Noi abbiamo parlato con Cingolani per scoprire la genesi del cortometraggio ma anche la bellezza e sofferenza che c’è dietro agli sguardi dei protagonisti.

Giorgio Cingolani

Cingolani, com’è nato il film?
«
Non era partito come un film in realtà, volevo studiare l’uomo usando un approccio sociologico e psicologico sul mondo adolescenziale. Antropologia e “visuale” insieme, mi piace così. Prima del film, munito di supporto audiovisiv,o me ne ero andato per l’Etiopia e l’Amazzonia per studiare l’umano. Poi sono tornato. Quella casa hotel che ospita 450 minori ha in sé una realtà variegata avvolta da una forma di pregiudizio che collide con il contesto urbano in cui è inserita».

Che cosa volevate fare?
«Volevamo aprire ponti, portare fuori l’esperienza da quell’hotel».

Com’è partito tutto, dunque?
«Dal laboratorio di cinema dei ragazzi, con cui avevamo deciso di girare un corto. Con quelli che hanno aderito al progetto è nato un rapporto di amicizia profondo. Ognuno si raccontava davanti all’obiettivo e da lì l’idea iniziale si è tramuta in lungometraggio».

Come avete organizzato il lavoro?
«Lavoravamo alla giornata, ritagliandoci gli spazi dalle nostre professioni, rigorosamente autofinanziati. Ci sono voluti otto mesi di riprese prima dell’uscita nel 2016».

Come si sono dimostrati i ragazzi?
«Incuriositi fin da subito e vogliosi di raccontare le loro storie».

Quali difficoltà avete riscontrato?
«
Dato che sono tutti minorenni, alcuni hanno avuto difficoltà ad avere il permesso dalle famiglie. Ci siamo accorti poi che ci dovevamo “sbrigare”, alcuni crescevano molto durante le riprese, cambiavano addirittura fisicamente in una stessa scena».

Come definirebbe il film?
«
Lo chiamerei “film partecipato”».

Quali sono i temi che porta a galla?
«
Il disagio esistenziale dei ragazzi, l’isolamento. I protagonisti sono arrivati in Italia a nove-dieci anni, quindi c’è anche il difficile rapporto con il Paese di origine sullo schermo. Abbiamo voluto far emergere questa duplice visuale».

Come vedono l’hotel House coloro che ci vivono?
«
Un palazzo che è casa, un palazzo con tanti problemi strutturali, a partire dalla manutenzione che non viene fatta, e con lo stato aggravato dal terremoto, ascensori che non funzionano. A questa parte negativa però si accosta l’altra positiva, il palazzo come luogo di incontro, di amicizie più forti di quelle “ordinarie”. La permanenza lì, comunque, è vissuta come una situazione transitoria: almeno tre ragazzi che hanno girato con noi sono già emigrati in Inghilterra con le famiglie. Vivere lì è difficile».

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