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Coronavirus e smart working, le Marche al sesto posto in Italia. Boom di richieste agli uffici della consigliera di parità

Non poche le difficoltà registrate per l'avvio del lavoro agile. Le donne sono quelle a pagare il prezzo più alto, sopratutto quando l'azienda non è preparata alle nuove modalità lavorative

ANCONA – Anche nelle Marche si è messa in moto la “macchina” dello smart working, pur se tra difficoltà e ritardi come avvenuto anche nel resto del Paese. Se da un lato è una grande occasione per le imprese e le pubbliche amministrazioni di “svecchiare” le modalità di lavoro, aprendo la strada ad una flessibilità da sempre ostacolata più che altro a causa di retaggi mentali improntati al bisogno del controllo da parte di alcuni datori di lavoro, dall’altro lato in questa condizione di convivenza forzata nelle famiglie e con le scuole chiuse, per le donne il lavoro agile è necessario, ma a volte non basta: quando c’è poca collaborazione familiare, è come una staffetta ad ostacoli. Ma andiamo per gradi.

Innanzi tutto, un primo dato positivo per la nostra regione c’è. Le Marche si sono piazzate al sesto posto in Italia per l’attivazione dello smart working nella pubblica amministrazione. La classifica, pubblicata sul sito del Ministero per la Pubblica Amministrazione e aggiornata al 3 aprile, vede in testa l’Abruzzo che vanta una percentuale del 100% di personale in modalità di lavoro agile, seguita dal Lazio con il 96,6% di dipendenti pubblici in telelavoro, al terzo posto la Provincia Autonoma di Trento con il 94,8% e subito dietro la Toscana con il 94,4%. A seguire Lombardia con l’88,7% dei lavoratori in smart working e poi le Marche che si piazzano in sesta posizione con una percentuale di dipendenti in lavoro agile pari all’83,5%. Fanalino di coda la Basilicata che ha messo in smart working poco meno della metà dei dipendenti, il 48,9%.

L’esperienza però non è sempre riuscita a decollare prontamente, né nella pubblica amministrazione né nelle aziende, dove le difficoltà non sono di certo mancate. «Da quando è partita l’emergenza Covid-19 abbiamo ricevuto una enorme richiesta di consulenza telefonica da parte di donne per sollecitare la corretta applicazione del lavoro agile – spiega la consigliera di parità della provincia di Ancona Pina Ferraro Fazio, che si occupa di discriminazioni di genere sui luoghi di lavoro -. Nonostante le indicazioni chiare e, in particolare, la seconda direttiva della presidenza del Consiglio dei Ministri e della Funzione Pubblica spiegava chiaramente che tutta la pubblica amministrazione doveva ricorrere al lavoro agile, ad eccezione di quei lavori che non possono essere differiti e comunque con l’utilizzo dei dispositivi di sicurezza e con una turnazione del personale, ci sono state delle situazioni in cui fino alla settimana scorsa c’erano persone che ancora erano costrette ad andare al lavoro perché i loro dirigenti o datori di lavoro non avevano ancora indicato chiaramente la procedura per lo smart working». Le difficoltà non si sono verificate solo nella pubblica amministrazione, ma anche nelle aziende dove «non tutti i datori di lavoro sono stati tempestivi» nell’applicare lo smart working.

La consigliera di parità sottolinea che «sono anni che si parla di lavoro agile, ma è sempre stata come una montagna inespugnabile per una non comprensibile rigidità nell’approccio innovativo e telematico, la necessità, forse, di eccessivo controllo, tutta una serie di fattori e di blocchi non reali, ma costruiti. Ciò che è venuto a galla con l’emergenza Coronavirus è che si può fare. Ci sono state delle situazioni in cui le persone sono state messe subito nelle condizioni di lavorare in maniera agile, quindi volere è potere. Non si può continuare ad andare avanti con l’estrema e inefficace approccio burocratico – prosegue – perché in condizioni di emergenza serve una risposta immediata. In questo caso è in gioco non solo la salute dei lavoratori e delle lavoratrici, ma quella della collettività. Bisogna contemperare certamente alla necessità di mandare avanti una attività, ma il beneficio del datore di lavoro deve essere equiparato a quello di chi lavora, non possono esserci squilibri. Non si può scaricare tutto sulla parte più in difficoltà».

Un cambiamento, quello delineato dalle misure restrittive imposte per limitare la diffusione dell’epidemia di Coronavirus «talmente repentino e improvviso che sta comportando dei disagi per chi lavora da casa, perché spesso non funzionano le connessioni e per portare a termine lo stesso lavoro di prima c’è bisogno di più tempo».

Un contesto nel quale, manco a dirlo, le donne pagano il prezzo più alto. Alla difficoltà nell’avviare lo smartworking e, qualora fosse attivo, di avere i mezzi per praticarlo, si aggiunge la responsabilità della cura familiare che continua a pesare in prevalenza sulle donne. In questa situazione di emergenza fanno infatti spesso molta fatica a conciliare la vita professionale con quella personale alle prese con i figli rimasti a casa per la chiusura delle scuole, con la gestione di tanti problemi familiari che sono sempre stati sulle proprie spalle e che in questa situazione rischiano di aumentare l’esposizione al rischio default della propria salute psico fisica.

Ma questo periodo “forzato” di smart working potrebbe costituire l’occasione e un punto di svolta utile alla società e alla produttività per tante aziende e luoghi di lavoro nel rendere stabile nella loro impresa o nella pubblica amministrazione il lavoro agile.

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