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Dalla Vigilia all’Epifania, le tradizioni culinarie delle Marche

Nelle Marche sono numerose le tradizioni culinarie tipiche delle feste, tramandate da generazioni, a richiamare una ritualità che fonde insieme più culture. Ne abbiamo parlato con lo storico della cultura gastronomica

Tavola, Natale (immagine severyanka Pixabay)

ANCONA – Dalla Vigilia di Natale all’Epifania, passando per il San Silvestro, la tavola delle feste nelle Marche fa sfoggio di antiche tradizioni, tramandate da generazioni, a richiamare una ritualità che fonde insieme più culture. «Il ciclo delle feste ha inizio il 24 dicembre con la Vigilia di Natale che si caratterizza da sempre per l’astinenza dalla carne – spiega il professor Tommaso Lucchetti, storico della cultura gastronomica dell’Università degli Studi di Parma – Non è Vigilia senza stoccafisso», così recitava un antico proverbio anconetano, ma anche la pasta secca con tonno e acciughe era un piatto che veniva portato sulla tavola del 24 dicembre dalle famiglie».

In una disanima sulle tradizioni più caratteristiche della regione, lo storico ne ricorda una in particolare, legata alla giornata della Vigilia: nel fabrianese, al ritorno dalla messa di mezzanotte, in alcune famiglie si usava preparare una polentina di farina bianca «appena profumata con agrumi» a simboleggiare «la cacca de lu bambinello» ovvero il passaggio di Gesù appena nato.

Piatto forte del pranzo di Natale i cappelletti in brodo, ma anche i passatelli, piatti a cui seguiva il cappone «simbolo del gallo che canta al nuovo giorno, e quindi allusivo all’aumentarsi delle ore di luce dopo la data del solstizio» afferma il professor Lucchetti, nel ricordare anche il tacchino, che ha preso nel tempo il posto del pavone, animale che nell’Antichità si credeva avesse una «carne incorruttibile, che non deperisce mai. Dal momento che si trattava di bestia dalla polpa non particolarmente morbida, nel tempo è stata sostituita dal tacchino che con la sua ruota per certi versi ricordava l’uccello multicolore sacro a Giunone».

Tommaso Lucchetti

Tra gli ortaggi, importanza fondamentale l’avevano il finocchio e i cardi che già nei ricettari fin dal ‘700 comparivano in parmigiana. Da ricordare anche il fritto ascolano, offerto sia a Natale che a Santo Stefano. «Il 31 dicembre, a San Silvestro, in alcune realtà si usava consumare i cavolfiori – spiega -: un omaggio al santo che secondo la tradizione aveva seminato gli ortaggi la mattina, poi germogliati la sera stessa».

In alcune zone del maceratese, lo storico riferisce l’usanza di preparare una crescia nella quale veniva inserito un Paolo, una moneta pontificia: «Secondo la tradizione la persona a cui toccava la fetta con la moneta avrebbe avuto una fortuna particolare per tutto l’anno».

Con l’Epifania, l’auspicio era quello di una nuova annata foriera di raccolti e in tal senso l’usanza della Befana, rappresentava la «personificazione allegorica della Mater antiqua – prosegue – una anziana, nel pesarese e nell’anconetano era la “marantega” (vecchia, ndr), che si congedava, come l’anno appena chiuso, portando in dono i frutti della natura: frutta secca, caldarroste, pezzi di mela essiccati e glassati, mandarini, arance, mandorle e in alcuni casi anche dolci come i torroni».

In tema di dolci, il periodo delle feste, aveva come protagonista il Bustrengo: il nome deriva probabilmente da “abrustolito al fuoco”, e con questo nome è presente in un ricettario del 1200. Conosciuto con nomi diversi a seconda delle zone delle Marche, da Frustingo nelle aree centrali della regione, a Pistringo nel sud, nel Montefeltro un proverbio recita “piov e neng tutt le vecchie fan el bustreng” a sottolineare la ciclicità di inizio inverno di questo dolce.

Il Frustingo o Bostrengo, con tutte le sue denominazioni, era il classico dolce “svuotacredenza”: veniva preparato in genere con farina di mais e frutta secca nelle preparazioni più povere, mentre in altre più ricercate venivano aggiunti anche cioccolato, aromi, spezie e liquori. «Nel lauretano si chiamava  Frustenga – spiega – e caratterizzava la Venuta, giorno in cui si celebra la Santa Casa approdata a Loreto».

Tipico di queste festività anche il “serpe” il dolce la cui forma ricorda quella del rettile, veniva preparato dalle suore Clarisse, il cui intento era quello di «celebrare l’Immacolata concezione», che nell’iconografia prevede il serpente schiacciato dalla Madonna sotto il suo piede. Veniva preparato con pasta frolla arrotolata al cui interno venivano messi vari ingredienti, tra cui frutta secca, liquore e cioccolato.

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