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“Je suis Fantozzi”, la riflessione di Nicola Cucchi su Rai Radio 3: «Noi, generazione che accetta (quasi) tutto»

Il giovane anconetano ha pubblicato il suo articolo su Minimaetmoralia, per finire poi nella rassegna stampa di Rai Radio 3 alcuni giorni fa. Ecco perché siamo tutti un po' Fantozzi, senza nemmeno rendercene conto

Fantozzi
Fantozzi

ANCONA – Siamo tutti un po’ Fantozzi? Probabilmente sì, e la vera tragedia è che non ne siamo del tutto consapevoli. È quanto emerge dall’analisi proposta dall’anconetano Nicola Cucchi sulla maschera dell’impiegato più famoso ed iconico d’Italia, pubblicata su Minimaetmoralia e ripresa dalla rassegna stampa di Rai Radio 3 alcuni giorni fa.

Il personaggio, nato come raffigurazione dell’uomo inetto e sfortunata vittima della prepotenza, è entrato oramai a pieno titolo nell’immaginario collettivo per la sua grottesca attitudine alla sudditanza psicologica verso il potere e come esempio di uomo medio vessato dalla società e alla continua ricerca di un riscatto: «Il prototipo del tapino, ovvero la quintessenza della nullità», come lo definì lo stesso Villaggio.

Il personaggio fece la sua prima comparsa sulle pagine de “L’Europeo”. Villaggio non ha mai fatto mistero di aver attinto per la genesi del ragioniere da un suo collega dell’azienda dove lavorava, la Italsider. Visto il successo riscontrato dagli scritti, i racconti pubblicati sono stati poi raccolti nel libro Fantozzi (1971) che è divenuto ben presto un bestseller, vendendo più di un milione di copie. Il libro è stato tradotto in molte lingue facendo vincere all’autore genovese, in Unione Sovietica, il premio Gogol nella sezione “migliore opera umoristica”. Visto il grande successo del libro, si è arrivò a realizzare una trasposizione cinematografica nella quale il ruolo del protagonista venne rivestito da Villaggio stesso.

Una cronistoria che però non rende giustizia dell’impatto sociologico e culturale che ha avuto questa maschera che ancora oggi viene citata a ripetizione perfino sui social dalle nuove generazioni che non hanno vissuto in prima persona né il contesto storico di Fantozzi, né la diffusione in celluloide dell’omonima saga.

«Fantozzi è da un lato una critica limpida all’arroganza della burocrazia fordista e dall’altro – scrive Cucchi – dimostra in modo semplice e implacabile l’evidenza della subalternità culturale dello sfruttato, la sua partecipazione attiva alle occasioni di umiliazione, vista l’assenza di alternative. Lo sfruttato non può reagire perché ha introiettato in pieno i sogni e gli ideali che lo sfruttatore gli mette a disposizione. Fantozzi è un desiderio eterodiretto e masochista, non riesce a far altro che sognare esperienze che lo faranno soffrire, vedendo riprodursi i suoi fallimenti».

Un personaggio che ha attraversato 40 anni di storia ma che ha perso agli occhi degli italiani di oggi la sua vera funzione: «Per gli “spettatori postumi”, la chiave comica perde molta della carica distruttiva anti-sistema, per lasciarci ridere pacificamente di fronte alla serie di sfighe (o alle “sfighe serie”) che Fantozzi subisce. A un occhio disattento le sue umiliazioni sembrano estreme e incomprensibili, ma purtroppo, senza rendercene conto, stiamo assomigliando sempre di più a quella figura estrema. E questo colpisce se pensiamo al livello di consapevolezza diffusa che solo pochi decenni fa la società aveva. Vedere tanti amici/conoscenti che prima delle partite rivendicavano il loro fantozziano “programma formidabile” con “frittatone di cipolle, familiare di Peroni gelata e rutto libero” mi porta a pensare che ciò che nel 1975 appariva come critica incendiaria, oggi, totalmente decontestualizzato, diventa un’occasione per condividere la “dipendenza dal pallone”. Mentre in quel caso la comicità era lo strumento per scardinare dei meccanismi storicamente sedimentati di obbedienza passiva all’ordine costituito, oggi diventa solo un’occasione di distrazione, un modo per rimuovere l’esistenza delle realtà di sfruttamento», afferma Cucchi.

E continua: «Un personaggio che ci fa ancora sorridere perché ne vediamo la caricatura, le iperboli, ma siamo miopi se si tratta di vedere le tantissime similitudini: “L’incapacità di soffrire con Fantozzi”, di capire che è uno di noi, non fa altro che rivelare la condizione diffusa di una generazione che accetta (quasi) tutto pur di sopravvivere in un universo che svaluta completamente la sua dignità. Siamo arrivati infatti ad un livello di subalternità e di partecipazione al nostro stesso sfruttamento che non ci consente più nemmeno di immaginare un’alternativa, di sognare una vita migliore, più giusta. Tutto quello che solo pochi decenni fa sarebbe sembrato estremo e inaccettabile a molti – conclude Cucchi – oggi è realtà quotidiana indiscutibile».

A conferma ti quanto detto non possono non risuonare le parole sibilate dallo stesso Villaggio in una delle sue ultime interviste: ad un giovane giornalista che lo ho incalzava e gli chiedeva “Chi è Fantozzi oggi”, l’attore genovese, con un velo di pena che gli copriva gli occhi, dopo un sospiro disse: «Sei tu, Fantozzi». Oracolo, ancora una volta. Eh già, Je suis Fantozzi.

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