Ancona-Osimo

Giorno del Ricordo, Ancona e gli esuli istriani: «Ci fu tanta sofferenza. Basta con il silenzio ideologico»

Giuliano Piccini, insegnante in pensione, è nel direttivo del Comitato provinciale di Ancona che riunisce gli esuli istriani e dalmati della provincia. «I ragazzi si stupiscono ma non hanno filtri»

Giuliano Piccini
Giuliano Piccini

ANCONA – Oggi (10 febbraio) è il Giorno del ricordo. Una giornata istituita nel 2004 per commemorare una tragedia della nostra storia. Per non dimenticare i massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata. Tanti gli italiani che arrivarono ad Ancona, sulla costa, fuggiti da Fiume, Istria e Dalmazia.

Lussino è l’isola di cui è originario Giuliano Piccini, ex insegnante di Ancona. La definisce «un’isola bellissima, meta di migliaia di turisti anche italiani. La maggior parte di loro non sa che Lussino fino a 70 anni fa era italiana ed abitata al 90% da italiani. È stata ceduta alla Jugoslavia, insieme all’Istria, a Fiume e a Zara, in seguito al trattato di pace successivo alla Seconda guerra mondiale. Oggi è Losinj, Croazia – precisa lui – Per fuggire dal nuovo regime jugoslavo, violentemente discriminatorio nei confronti della popolazione italiana, comincia così un esodo di massa: circa 350.000 lasciano la propria terra abbandonando tutto».

«È forse poco noto che tra gli esuli istriano-dalmati diverse sono le personalità di spicco: Niccolò Tommaseo, Leo Valiani, padre della Costituzione, Ottavio Missoni, Enzo Bettiza, Sergio Endrigo, Mario Andretti, Nino Benvenuti, Alida Valli, Abdon Pamich, Sergio Marchionne. Per citare soltanto il capoluogo della regione, ad Ancona si stabilirono oltre 500 nuclei familiari di esuli. Ricordiamo tra essi l’ingegnere Viezzoli, imprenditore e fondatore della società Aethra ed i fratelli Carloni, noti ristoratori».

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«Tuttavia, per incomprensibili ragioni geopolitiche ed ideologiche, per oltre 60 anni queste vicende verranno tenute nascoste: non se ne parla nei giornali, nelle televisioni e soprattutto non se ne parla nei libri di scuola. Una storia dimenticata – riflette – Poi i muri sono crollati e di queste vicende si è cominciato a parlare. La legge istitutiva del Giorno del Ricordo del 2004 ne è l’esempio emblematico».

Giuliano Piccini (foto per sua gentile concessione)

Signor Piccini, quanto è importante il valore del ricordo ?
«Ricordare è importante perché attraverso il ricordo si acquisisce rispetto e conoscenza. E solo con la conoscenza, senza filtri di alcun tipo, e mi rivolgo soprattutto ai giovani, si può costruire consapevolezza e la capacità di cogliere con largo anticipo i semi dell’odio nei fatti che ci circondano nella speranza che queste tragedie non accadano più: ed è questo il significato più profondo di queste giornate».
«Ricordare è importante perché attraverso il ricordo si acquisisce rispetto e conoscenza. E solo con la conoscenza, senza filtri di alcun tipo, e mi rivolgo soprattutto ai giovani, si può costruire consapevolezza e la capacità di cogliere con largo anticipo i semi dell’odio nei fatti che ci circondano nella speranza che queste tragedie non accadano più: ed è questo il significato più profondo di queste giornate».

Lei tutto questo l’ha vissuto in prima persona, vero?
«Sono l’unico della famiglia nato successivamente all’esodo dei miei genitori dall’isola di Lussino. Ma le vicissitudini che hanno subito ed i loro racconti sono sempre stati parte integrante della mia vita. E di queste vicende mi sento in dovere di portare testimonianza. La storia inizia nel dopoguerra con l’arrivo del regime comunista di Tito, seguendo un disegno politico di cancellazione della millenaria presenza italiana e di slavizzazione forzata di quelle zone, nei confronti degli italiani iniziano le discriminazioni, le persecuzioni, l’imposizione di lingua e cultura, fino all’orrore delle foibe.  All’età di sette anni a mio fratello, che non conosceva una parola di serbo-croato, è stata imposta la scuola jugoslava».

I genitori di Piccini, Oscar e Nives (foto per sua gentile concessione)

Per gli italiani di Istria e Dalmazia non era più possibili restare, vero?
«Esatto. Nell’isola di Lussino, dove vivevano i miei genitori, su 10mila abitanti 9mila chiedono di andare via. Ma l’esodo di massa determina uno spopolamento del territorio che significa perdita di forza lavoro e di personale specializzato. E soprattutto una sconfitta per il regime di Tito di fronte all’opinione pubblica internazionale: come mai all’arrivo del paradiso socialista tutti fuggono? Agli italiani viene allora impedito di andare via. Mio padre, che lavorava come elettricista al cantiere navale di Lussino, di notte veniva prelevato dalla polizia politica e, alla ricerca dei cosiddetti ˊnemici del popoloˊ, costretto anche sotto tortura a fare dei nomi di colleghi di lavoro che nulla avevano commesso. Da qui la decisione, come tanti, di fuggire con ogni mezzo: ˊPer te è pericoloso restareˊ gli diceva mia madre ˊtu fuggi poi in qualche modo ti raggiungerò».

Prosegua…
«Nel dicembre 1951 con una barca, assieme ad altre 12 persone, mio padre riuscì a scappare. Arrivarono nel porto canale di Pesaro alle prime luci dell’alba del 6 dicembre 1951, finalmente liberi. Mia madre rimase sola con mio fratello di 4 anni. Fece di tutto per ricongiungersi a mio padre ma il diritto di andare in Italia le fu sempre negato. Anche per lei e mio fratello l’unica strada rimaneva la fuga. Nel 1953, mio padre, che si trovava ad Ancona per lavoro, si accordò con due pescatori anconetani che con un peschereccio dovevano prelevare mia madre in un punto concordato lungo la costa istriana vicino Pola. Ma furono individuati dalle motovedette jugoslave ed arrestati. Confessarono tutto e mia madre fini in prigione. Dopo un mese di prigionia in condizioni disumane, istituirono un processo farsa durante il quale mia madre, per evitare guai peggiori doveva accusarsi pubblicamente di essere una ‘nemica del popolo’. Accettò. Sola e con un bambino di pochi anni non aveva scelta. Scontò tre mesi di prigione terribile. Nel 1955, dopo altre richieste di poter tornare in Italia, sempre respinte, la richiesta fu finalmente accolta. Così, nel 1955, dopo quattro anni di forzata separazione, la mia famiglia poté ricongiungersi nella madre patria Italia abbandonando tutto quello che avevano. Un anno dopo nacqui io. Ci siamo stabiliti ad Ancona, e lì, con sacrifici, ci siamo rifatti una vita ma con nel cuore una struggente nostalgia delle nostre terre abbandonate».

Storie simili, sentite spesso, mai troppo. Eppure tutte così diverse…
«La storia della mia famiglia è simile a tante altre storie di tanti connazionali istriani e dalmati purtroppo per tanti anni dimenticate: sono gli italiani di quelle zone ad aver pagato il prezzo di una guerra assurda, degli opposti totalitarismi e di ciniche convenienze di politica internazionale».

Lei è nel direttivo del Comitato provinciale di Ancona che riunisce gli esuli istriani e dalmati della provincia. Ogni anno, in occasione del Giorno del Ricordo, organizzate diverse iniziative, vero?
«Sì, facciamo eventi e incontri nelle scuole, oltre alle commemorazioni ufficiali. In particolare, quest’anno, il 10 febbraio, presso la sede della Facoltà di Economia di Ancona, si terrà la celebrazione ufficiale del Giorno del Ricordo assieme al Comune di Ancona e la partecipazione di Università e Regione. Il 14 febbraio, presso il centro Pergoli di Falconara, si terrà una conferenza assieme al Comune di Falconara».

Cosa la colpisce di più parlando con i ragazzi nelle scuole ?
«L’assenza di filtri ideologici. Oggi il dramma degli esuli non è più rimosso, ma, puntuale ogni anno, c’è qualcuno che esprime la sua opposizione alla istituzione di questa giornata ed alle commemorazioni che si celebrano mettendo in evidenza, per tornaconto ideologico, solo alcuni aspetti della vicenda e negando il resto. Non si possono leggere le vicende storiche guardando solo quanto più utile alle proprie idee. Per molti, troppi, invece, la storia è funzionale all’ideologia alla quale si è delegato il proprio senso critico: ‘se raccontare una vicenda porta un vantaggio, allora se ne può (e se ne deve) parlare, altrimenti è meglio nasconderla. Se poi dietro quelle vicende si nascondono drammi e sofferenze umane la cosa non è rilevante’. Questa mentalità non appartiene ai giovani che, anzi, chiedono informazioni e si stupiscono del fatto che ancora in molti libri di scuola non si parla di queste vicende che hanno colpito tanti connazionali».

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