Ancona-Osimo

Eutanasia, Mina Welby: «Mario e Antonio? Se hanno bisogno di lasciare questa vita penso sia necessario ascoltarli»

La co-presidente dell'Associazione Luca Coscioni interviene sulla vicenda di Mario e Antonio, i due tetraplegici marchigiani che chiedono di accedere al suicidio medicalmente assistito in Italia

Mina Welby

ANCONA – «Se Mario e Antonio hanno bisogno di lasciare questa vita per trovare la pace, penso che sia necessario ascoltarli oppure offrire loro qualcosa per invogliarli a vivere, ammesso che ci sia». A parlare è Mina Welby, co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, che interviene sulla vicenda dei due marchigiani tetraplegici che stanno combattendo la loro battaglia per accedere al suicidio medicalmente assistito in Italia, sulla scia della sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato-dj Fabo.

A fare da apripista in Italia con la richiesta di accedere all’eutanasia nel nostro Paese, arrivando a denunciare più volte l’Asur Marche e a diffidare il governo, è stato Mario, 43enne marchigiano rimasto immobilizzato da 10 anni in conseguenza a un incidente. Dopo che il Comitato etico della Regione Marche aveva verificato le condizioni per l’accesso alla procedura, il caso si è arenato sul farmaco da utilizzare. Alla vicenda di Mario, si è aggiunta anche quella di Antonio, anche lui marchigiano e seguito dall’Associazione Luca Coscioni. Casi che sono approdati anche nell’Aula del Consiglio regionale delle Marche.

Situazioni delicate e dolorose, che hanno suscitato uno scontro politico nelle Marche, riproponendo le divisioni presenti anche a livello nazionale tra pro e contro l’eutanasia. Mina Welby, dopo la morte di suo marito Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare, antesignano in Italia della battaglia per l’eutanasia legale e per il diritto al rifiuto dell’accanimento terapeutico, da anni è impegnata per il riconoscimento di una legge che tuteli e disciplini il fine vita.

«I casi di tetraplegia come quelli di Antonio e Mario – spiega -, accadono quasi sempre in seguito ad emorragia cerebrale o incidenti sul lavoro e stradali. Sono persone che hanno lavorato, che sono state attive, e che avrebbero desiderato tutto fuorché restare immobilizzate in un letto o in carrozzina. Allora io mi chiedo se hanno i trattamenti adeguati al loro caso, se sono presi in carico dal sistema sanitario».

Secondo Mina Welby, «le Istituzioni hanno il dovere di garantire anche a questi malati uno sprazzo di vitalità: mio marito Piergiorgio all’inizio aspettava solo la morte, ma poi per fortuna, con il suo buonumore e la vicinanza di tutta la famiglia si è ripreso, tuttavia non era paralizzato come Mario o Antonio».

La co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni rimarca che chi si trova nelle condizioni vissute dai due tetraplegici marchigiani è costretto ad essere accudito dai familiari, che spesso perdono anche il lavoro, e oltre alla pressione familiare c’è la questione economica perché, come osserva, «in questi casi i soldi non bastano mai».

«Queste persone non sono uno scarto, non vanno lasciate marcire – afferma -, occorre garantire loro vitalità, assistenza e ausili, ma se non si può fare nulla per invogliarli a vivere e se non si può fare più nulla per renderli felici, e loro desiderano solo lasciare questa vita, allora occorre mettersi una mano sulla coscienza e ascoltarli».

Alcune di queste persone, come evidenzia, magari possono muovere ancora le mani, per questo insiste sugli ausili: «Abbiamo un nomenclatore tariffario delle protesi sanitarie che possono dare sollievo e il piacere di produrre ancora qualcosa per sentirsi utili, dove è possibile, un piacere contagioso anche verso la famiglia. Il malato va ascoltato – aggiunge -, spero che l’Italia abbia il coraggio di compiere quel passo in più, quello scatto, per il riconoscimento di una morte tranquilla e dignitosa, in mezzo ai propri cari, quando non c’è più niente da fare: siamo tutti votati alla morte, prima o poi succede, ma deve avvenire il più possibile in maniera dignitosa e positiva».

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