Ancona-Osimo

Check-point Kyiv: storie di guerra dal fronte ucraino secondo Pierfrancesco Curzi

Un libro per sapere e per riflettere: sarà presentato domani, 27 ottobre, in Comune ad Ancona dall'autore, giornalista del Resto del Carlino e de Il Fatto Quotidiano. Presente anche il sindaco Daniele Silvetti

La copertina del libro di Curzi

ANCONA – Presenterà domani, 27 ottobre, il suo nuovo libro in Comune, Pierfrancesco Curzi, giornalista del Resto del Carlino di Ancona e de Il Fatto Quotidiano. Si intitola «Check-point Kyiv» e nasce dopo l’ultimo viaggio al fronte, l’ultima «missione» come le definisce l’autore, anconetano, classe 1968, giornalista, reporter ma anche scrittore, giunto con questo libro dall’inferno ucraino alla sua sesta pubblicazione, tra cui due romanzi, «Nell’afa», del 2017, e «Codice 4», del 2021. Cronista da trent’anni, da dieci scrive dal fronte per Il Fatto Quotidiano per cui ha pubblicato reportage da quattro continenti su temi legati alle guerre e all’immigrazione: dall’Afghanistan al Niger, dal Venezuela al Kurdistan, dal Nord Africa ai Balcani, dal Medio Oriente all’Irlanda del Nord e, appunto, all’Ucraina. Domani pomeriggio alle 18 in Comune si parlerà, dunque, di guerra e di «Check-point Kyiv» con il sindaco Daniele Silvetti, moderatore Giacomo Giampieri.

Momi, da dove nasce «Check-point Kyiv»?
«Nasce in corso d’opera. Dopo aver fatto diverse missioni ho iniziato a raccogliere materiale umano ed esperienze e visto che con la settima missione ho chiuso il cerchio di copertura territoriale, parliamo di un fronte lungo 1500 km, ho racchiuso tutto in un libro. Quando ho visto che il materiale cresceva, tra la quarta e quinta missione, ho cominciato a pensare al libro, ne ho scritto una parte tra la quinta e la sesta, e dopo la settima, a luglio scorso, tornando anche in zone già coperte in passato, da Kharkiv, la città più a nord est, fino a Kherson e Odessa che invece stanno a sud, l’ho completato. La stesura definitiva è di settembre. Ma sto già pensando a una riedizione aggiornata, perché ho in programma un’altra missione in Ucraina, tra novembre e dicembre».

Ma questi viaggi come li organizza?
«Non sono un inviato ma un freelance e quindi vado con la missione di raccontare quello che vedo, reportage, esperienze in prima linea. Le chiamo missioni anche perchè le ho pianificate tutte io. Organizzo tutto, i contatti per andare in prima linea, per affittare giubbotto antiproiettile e il caschetto, per ottenere i permessi, dietro c’è una preparazione lunghissima ed estenuante. Anche perché poi capita che il treno venga cancellato per un bombardamento, o che l’autobus non parta. Ho fatto sempre tutto da solo».

Che esperienza è stata?
«Professionalmente parlando sicuramente la più completa che ho fatto, cento giorni passati in Ucraina in un Paese in guerra, con una serie di esperienze a volte drammatiche, incredibile a livello umano quanto professionale. Ho scritto un libro costellato di personaggi, di gente comune, un racconto con tante storie e anche mie valutazioni sulla situazione in generale, sulle responsabilità del conflitto. Non ero mai stato in Ucraina, prima, e mi ha colpito conoscere un Paese che, nonostante sia sotto assedio da oltre seicento giorni, mantiene una vitalità incredibile, un Paese che non immaginavo, anche come sistema di vita».

Sei stato spesso in guerra: cos’hai visto e trovato, in Ucraina, che non c’era nelle precedenti esperienze?
«Una reazione e una compattezza di popolo mai vista altrove. In Iraq o in Afghanistan, come in Siria, ho trovato scenari molto particolari, confusi. Qui, invece, ho visto come un popolo si è unito, compatto, e come non arretra di un centimetro. Sanno benissimo che stanno subendo perdite continue, danni irreparabili, oltre diecimila morti civili, oltre a decine di migliaia di soldati, tante cose che potrebbero indurli a fermarsi. Invece tengono duro. Questa è la caratteristica diversa. E poi il dramma dei profughi. A partire sono state le donne, le madri, quelle che hanno dovuto tenere in piedi famiglie, occuparsi dei bambini. Gli uomini, invece, a combattere o a mandare avanti il Paese, mentre un quinto della popolazione è scappata all’estero, ho incontrato carovane infinite di donne, bambini e anziani».

Cosa ti induce a spingerti in prima linea nei Paesi in guerra?
«La passione per questo mestiere. Non ho paura, o meglio, ho altre paure, ma non mi spaventa andare in zone dove c’è gente che spara. E poi la passione per raccontare situazioni estreme in luoghi dove non tutti vogliono andare. Riuscire a raccontare quello che ho visto è la mia missione e passione professionale. Con i pezzi su Il Fatto Quotidiano, ma anche con questo libro. Per lasciare una traccia, un riassunto delle esperienze vissute».

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