Ancona-Osimo

Pasquetta: le dolci tradizioni marchigiane, tra ciambelle strozzose e calcioni

Il professor Tommaso Lucchetti, storico della cultura gastronomica dell’Università degli Studi di Parma, ci introduce nelle tradizioni culinarie legate al periodo pasquale, strettamente connesse ai riti religiosi

Pizza dolce di Pasqua (Foto di bityuckova2010 da Pixabay)

ANCONA – Nella civiltà rurale le festività pasquali rappresentavano uno dei momenti, assieme al carnevale, in cui si concentravano le preparazioni di dolci legate alla tradizione. Caratteristica di questo momento era la variante dolce della crescia marchigiana, focaccia tradizionale molto antica, come spiega il professor Tommaso Lucchetti, storico della cultura gastronomica dell’Università degli Studi di Parma.

«Notizie della focaccia lievitata marchigiana, chiamata secondo tradizione contadina anche ‘brusca’ risalgono già al sedicesimo, secolo al trattatello di botanica alimentare cinquecentesco di Costanzo Felici, medico ed erudito originario di Piobbico».

La preparazione della crescia dolce pasquale iniziava già «il giovedì santo e prevedeva l’impiego di moltissime uova messe da parte durante tutta la quaresima per la preparazione di numerose pizze che dovevano durare fino a 50 giorni dopo la Pasqua, ossia fino alla data della Pentecoste, ultima celebrazione del tempo pasquale liturgico- spiega Lucchetti – . La “crescia” o “pizza” dolce era equivalente, come impasto e forma, della sua corrispondente salata, chiamata nel gergo contadino ‘brusca’, ma invece del formaggio, prevedeva l’aggiunta ovviamente di zucchero e poi a piacere canditi e, più raramente, uvetta e mandorle».

Inoltre, aggiunge, «la pizza di Pasqua veniva profumata con gli aromi, come essenza di mandorle, vaniglia, anice, talvolta assemblati ad arte in apposite fialette aromatizzate preparate dai farmacisti dei piccoli centri urbani». In Vallesina per la Pasqua era tradizione preparare le ‘ciambelle strozzose’ che venivano decorate da una glassa bianca «che nelle campagne veniva chiamata ‘biacca’ per il suo colore e la consistenza che ricordava quello dell’intonaco» spiega Lucchetti. La glassa veniva realizzata come una meringa o sciogliendo lo zucchero, «a cui spesso si aggiungevano confettini colorati. Le ‘ciambelle strozzose’, che si preparano ancora oggi, derivano il nome dalla consistenza ‘impegnativa’ – prosegue – : l’impasto veniva prima lessato e poi cotto al forno».

«Un’altra tradizione marchigiana del periodo pasquale, specie nell’entroterra anconetano – spiega – sono i ‘calcioni’, che nel piceno e nel maceratese prendono il nome di ‘piconi’. I ‘calcioni’ erano presenti con denominazioni simili già nei ricettari del XV secolo. Si tratta di un piccolo pasticcino con ripieno dolcificato di formaggio grattugiato e zafferano».

Il professor Lucchetti ricorda anche un’altra ricetta di dolce pasquale molto antico, la ‘ciaramilla’ o ciaramicola’: «Citata anche da Costanzo Felici si ritrova in varianti tradizionali nell’urbinate, ma anche nell’arceviese, ed in tutte le aree della regione confinanti con l’Umbria – dice – . Veniva colorata nell’impasto di rosso a simboleggiare il sacrificio di Cristo». Questo dolce, spiega il professor Lucchetti era preparato a forma di ciambella chiusa da una croce di pasta in prossimità del foro centrale.

La colomba pasquale

Nei monasteri le suore di clausura erano solite preparare anche un dolce a forma di agnello realizzato con un impasto a base di mandorle tritate «che donavano ai personaggi più eminenti della città». «La tradizione della colomba pasquale – prosegue – è più recente e nelle Marche e comincia a diffondersi nel Dopoguerra, citata da folkloristi del nostro territorio come ‘palomba’. Si tratta di una ‘invenzione’ dell’industria dolciaria milanese, derivante da una leggenda pasquale che riprendeva una tradizione altomedievale relativa all’apparizione miracolosa di una colomba come auspicio di pace in occasione di una Pasqua in periodo di guerra durante le invasioni barbariche».

Le uova al cioccolato hanno una tradizione ancora più recente e traggono spunto dall’uovo come simbolo di rinascita. «Una tradizione nordeuropea presente già ai primi del 1.700, riferita a Versailles alla corte francese di re Luigi XIV – spiega – quando si preparavano con ripieno di cioccolato cremoso. Due secoli dopo, agli albori del Novecento, mastri cioccolatieri torinesi iniziarono a riempire i gusci svuotati e poi cominciarono ad inserire all’interno la sorpresa, una tradizione nobiliare che traeva spunto dalle uova Fabergé alla corte russa degli zar. Nelle Marche – conclude – l’usanza delle uova di cioccolato si è diffusa principalmente nel periodo del Dopo guerra».

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