Ancona-Osimo

«Guardo all’Afghanistan e vedo la Siria. Non c’è pace per i civili, solo silenzio». L’intervista ad Asmae Dachan

La giornalista ed attivista per la pace, Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, parla del suo nuovo libro di poesie "Non c'è mare ad Aleppo", e denuncia le macerie delle guerre dimenticate

Asmae Dachan in una foto di Apollonia Benassi

Asmae Dachan, giornalista professionista, fotografa, poetessa e scrittrice italo-siriana, cittadina delle Marche ed insieme del mondo, ha scritto un nuovo libro. “Non c’è mare ad Aleppo”, questo il titolo di una preziosa silloge di poesie, la terza, che segue diverse altre pubblicazioni tra cui, nel 2018, il romanzo “Il silenzio del mare” per Castelvecchi editore, dedicato alla tragedia in Siria, e finalista al Premio Piersanti Mattarella.

Esperta di Medio Oriente, Siria, Islam, dialogo interreligioso, immigrazione e terrorismo internazionale, Asmae è soprattutto una giornalista molto nota, freelance per testate nazionali e internazionali, tra cui Avvenire, Confronti, Panorama, L’Espresso, Altreconomia, Venerdì di Repubblica, The Post Internazionale e Senza Filtro. Ma è soprattutto infaticabile attivista per la pace e la non violenza, nominata nel 2013 Ambasciatrice di Pace dell’Università per la Pace della Svizzera, e nel 2019 insignita del titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Ha un blog, Diario di Siria, in costante dialogo con una coraggiosa rete di citizen reporter siriani, che ha il merito di illuminare una guerra sempre più lontana dai riflettori internazionali. Tutte esperienze che confluiscono nei versi del nuovo libro.

“Non c’è il mare ad Aleppo”, edizioni L’Erudita, segna una nuova fase nell’esperienza umana e professionale. Scritta in lingua italiana, la lingua madre dell’autrice, l’opera è un viaggio tra la vita e la morte, dalla guerra in Siria al lutto privato, dalle macerie di Aleppo al mare di Ancona, dalla personificazione dell’ansia e dell’insonnia alla celebrazione quasi viscerale della scrittura. E come i fiori che spuntano tra le macerie, anche tra le poesie della Dachan trovano spazio parole d’amore.

Il nuovo libro di Asmae Dachan “Non c’è il mare ad Aleppo”

Per una giornalista immersa, quotidianamente, nella cronaca della storia, delle storie – in particolare quelle legate ai fatti di Siria e agli eventi legati al Medio Oriente, del dialogo interreligioso, dell’immigrazione, del terrorismo internazionale – cosa rappresenta la poesia, quale necessità?

«La poesia per me rappresenta uno spazio in cui dare voce alle emozioni, dove poter fermare il tempo e far emergere i pensieri. È una vera e propria necessità dell’anima. La scrittura giornalistica ha regole molto precise, le emozioni non possono essere protagoniste. La poesia, invece, dà voce e spazio proprio a quei pensieri e a quel sentire intimo, nascosto, che si trasforma in parole. Ogni mia silloge nasce, infatti, in concomitanza con eventi particolari della mia vita: l’inizio della guerra in Siria, la prematura scomparsa di mia sorella Noura e il decennale della guerra nella mia terra d’origine, che coincide anche con l’inizio di una fase ancora più adulta della mia vita».

In questo libro c’è la Siria, e c’è anche Ancona, cosa lega questi due luoghi, per te, del cuore?

«Aleppo e Ancona sono le due protagoniste di questa silloge; una terra d’origine, l’altra terra della mia vita vita, entrambe parte del mio cuore. Il trait d’union tra questa due sponde del Mediterraneo è proprio la mia storia, la mia vita. Il libro si apre con Aleppo e la guerra, viaggia attraverso il tema dell’amore e degli affetti, della passione per la scrittura e si chiude con alcune liriche dedicata proprio al capoluogo marchigiano».

Convegni, podcast, giornalismo, poesia, romanzi, ma anche fotografia… Sei una donna che scrive, e racconta, in tanti modi diversi, perché?

«Quella per la scrittura è una passione che nasce quando ero bambina. È la mia dimensione, la mia passione più grande. Mi piace ascoltare, osservare, approfondire e poi immortalare e raccontare. Non esco mai di casa senza un supporto per scrittura, che sia manuale o digitale. Mi capita di uscire per un giro in bicicletta e poi fermarmi perché qualcosa ha attirato la mia attenzione e voglio raccontarlo, fotografarlo. Persino quando faccio un turno in Croce Rossa ho in tasca foglio e penna per fermare un istante particolare, un’emozione, un’idea che quella determinata circostanza mi ha ispirato. Da un lato sono molto felice e grata del fatto che la mia passione sia diventata anche la mia professione, dall’altro mi rendo conto che, complice il fatto che sono una freelance, non riesco mai a dividere realmente il lavoro dal privato».  

Da attivista per la pace e la non violenza, costantemente impegnata – anche come volontaria della Croce Rossa – sul fronte dei diritti umani, del dialogo tra i popoli, dell’emancipazione delle donne, come vivi l’ennesima, e forse più tragica, crisi dell’Afghanistan?

«Male, molto, molto male. Era una tragedia annunciata e noi giornalisti che ci occupiamo di esteri, ma ancor di più chi si occupa di politica internazionale, non possiamo dire che non era prevedibile quello che è successo. Sono mesi che la società civile afghana denuncia e fa appelli, dicendo che l’abbandono di punto in bianco dell’Afghanistan da parte delle potenze occidentali – dopo vent’anni di presenza ininterrotta, senza aver creato condizioni di sicurezza reali – avrebbe riconsegnato i civili afghani, in particolare le donne, alla ferocia dell’Isis-K da un lato e dei Talebani dall’altro. Persone inermi lasciate tra due fuochi, insomma, tra fanatici, integralisti, misogini che per imporre le proprie ragioni usano le armi con una facilità che fa riflettere molto e che sembrano gareggiare su chi è più fanatico e assetato di sangue. C’è una generazione in Afghanistan che negli ultimi vent’anni è cresciuta in circostanze diverse da quelle in cui hanno vissuto i padri e le madri, una generazione che, seppure in condizioni di costante pericolo, ha assaporato una certa libertà, dove le donne hanno potuto tornare a studiare, lavorare e partecipare alla vita politica, sociale e culturale dell’Afghanistan. È chiaro, non è mai stata rose e fiori la vita dei civili, in particolare per le donne e le minoranze religiose, ma c’erano un grande fermento e una voglia di vivere impressionanti. Oggi quei diritti fondamentali tanto dolorosamente conquistati, sono in pericolo, uno dopo l’altro vengono cancellati. Talebani e militanti dell’Isis-K sono due facce della stessa medaglia fatta di maschi (non riesco a chiamarli uomini) che con i mitra in mano stanno distruggendo le vite di milioni di persone».  

Stai dialogando con le reti dei giornalisti e degli attivisti, delle ong ma non solo, che stanno operando in Afghanistan e nei campi profughi già da decenni esistenti ai confini del paese. Molti rischiano la vita, e sono costretti ad abbandonare il paese. Che notizie hai in proposito, in particolare da parte delle attiviste donne e dai giornalisti del territorio?

«Alcuni sono riusciti a partire, altri no. Un mese prima della partenza degli Americani avevo intervistato da remoto alcune giornaliste e avvocatesse. Conversazioni in inglese, dove loro raccontavano le loro preoccupazioni e denunciavano i continui attentati ai loro danni, con la voce di chi è consapevole del pericolo imminente, domandando come mai la comunità internazionale stesse a guardare. In questi giorni abbiamo visto le donne sfidare la crudeltà e l’oscurantismo dei talebani, guardandoli in faccia e denunciando le loro violazioni. Immagini potenti, di donne con in mano megafoni e fogli di carta di fronte a maschi armati fino ai denti e pieni di odio, pronti ad annientarle, condannandole a coprirsi come fantasmi con il burqa e strappando loro la libertà, l’autodeterminazione, la stessa vita. So da colleghe e colleghi che da anni si occupano di Afghanistan che molti attivisti e attiviste sono stati accolti in Italia, ma molti altri restano lì, in balia degli eventi, in una condizione di particolare pericolo perché considerati collaboratori delle potenze occidentali, quindi traditori. Le loro vite sono in pericolo».

E in Siria? Se ne parla poco, quale è la situazione?

«Guardo all’Afghanistan e vedo la Siria. In dieci anni di guerra in Siria la società civile è stata colpita in modo drammatico, costringendo attivisti per i diritti umani, giornalisti, avvocati all’esilio, al carcere o alla morte. La società civile si è trovata tra due fuochi, un governo dittatoriale che si è macchiato di crimini contro l’umanità e gruppi di terroristi che a loro volta hanno commesso stragi indicibili, attentati, azioni disumane. La politica internazionale sembra ogni volta dover scegliere tra il peggiore dei due mali, quando invece dovrebbe scegliere e sostenere chi sta dalla parte del bene, ovvero la società civile, in tutte le sue componenti etniche, sociali, politiche e religiose. Eppure, ancora c’è chi strizza l’occhio al governo di Damasco. È vero che gli uomini del regime non hanno la barba lunga come gli integralisti, quindi sembrano meno feroci, ma si comportano allo stesso modo dei criminali dell’autoproclamato Califfato. Va ricordato che in Siria la violenza di genere è stata usata come arma di guerra da parte dei soldati del governo e dei gruppi jihadisti. Le donne, a qualunque latitudine, continuano a pagare ancor più degli uomini. Proprio in questi giorni Amnesty International ha pubblicato un nuovo, drammatico report sul destino dei rifugiati siriani che tornano in Patria e vengono attestati, torturati, uccisi. Non se ne parla più, ma la guerra in Siria non è ancora finita; Daraa al Balad, a sud della capitale, è assediata da ottanta giorni e i civili si trovano a vivere tra gli stenti, sotto nuove ondate di bombardamenti. E anche in Siria è arrivato il Covid-19. Non c’è pace per i civili siriani, solo silenzio».

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