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Da Kobane a Raqqa, da recluta a comandante: la mia guerra contro l’Is

Intervista al combattente di Senigallia Karim Franceschi, comandante in Siria di un battaglione di internazionalisti contro il sedicente Stato islamico

Karim Franceschi

SENIGALLIA – Prima l’esperienza umanitaria, poi quella militare: a fianco dell’Ypg (Unità di protezione del popolo) Karim Franceschi ha combattuto più volte sia come soldato semplice quando c’era da liberare Kobane nel 2015, sia come comandante quando l’obiettivo era Raqqa, nel 2016, capitale del califfato nero. Esperienze che sono finite in due libri: l’ultimo, “Non morirò stanotte” (Rizzoli), verrà presentato in anteprima nazionale venerdì 12 ottobre alle 21.15 allo spazio autogestito Arvultùra di Senigallia, in via Abbagnano, dove il combattente Marcello (questo il suo nome di battaglia) ha passato diversi anni impegnato in attività culturali e solidali. Qui inizia il suo percorso a fianco del popolo curdo e qui ritorna per raccontare la sua guerra a tante persone, spesso indifferenti a queste vicende perché “lontane”.

Perché hai deciso di tornare in Siria e cos’è cambiato tra Kobane e la battaglia di Raqqa?
«La mia prima esperienza è nata grazie a un cordone umanitario che portava viveri e beni di prima necessità nelle zone coinvolte dalla guerra civile. Una volta lì però mi sono accorto che dovevo fare qualcosa di più e ho deciso di arruolarmi per combattere l’Is, lo stato islamico che sta trucidando migliaia di persone. A spingermi sono stati i miei ideali di democrazia e antifascismo: non potevo rimanere a guardare. Ma mentre a Kobane ero quasi l’unico occidentale, a Raqqa guidavo un battaglione d’assalto composto da internazionalisti».

Com’è nata l’idea di guidare un battaglione?
«La proposta è arrivata perché si era sciolto un altro battaglione che aveva invece combattuto a Kobane. Il problema è stato formarlo: non devi pensare solo ai volontari da arruolare, ma all’armamento, alla sede, all’addestramento, alle strategie. Ti devi procurare tutto. All’inizio come me c’erano 25 combattenti internazionalisti e alla fine c’erano anche 150 arabi. Ma a ogni operazione ne portavo 8 o 10. E siamo riusciti a dare il nostro importante contributo per la spallata decisiva all’Is che difendeva la sua prima capitale, Raqqa».

Cosa racconti nel libro “Non morirò stanotte”?
«E’ un diario di guerra, dove parlo di operazioni d’assalto nel deserto, di scontri, di imboscate, di feriti e strategie militari. Ma è anche un viaggio dentro me e con i miei compagni: parlo della maturazione personale che mi ha portato a fare delle scelte, parlo del fatto che ho rischiato di morire, dei mesi di ospedale e, senza abbellire i fatti di guerra, rendo onore a tutti quelli che hanno combattuto al mio fianco raccontando le loro storie».

Tornerai in Siria? Abbraccerai di nuovo il fucile?
«La mia esperienza militare è finita. Non tornerò a combattere. Ora spetta alle popolazioni siriane e curde continuare a dare vita a quell’esperienza democratica per cui tante migliaia di persone hanno sacrificato, a Raqqa come in altre città, la propria vita o tutti i propri averi. Sacrificio che ora rischia di essere vanificato a causa dell’invasione turca. La Turchia, membro Nato, sta ostacolando con tutte le sue forze e con l’appoggio dell’Europa l’espansione di quel progetto democratico e confederalista, multiculturale e multiconfessionale, ambientalista, femminista, anti-capitalista che sfida la società patriarcale. Adesso sono militarmente occupate quelle regioni da cui è partito e che si sta allargando a tutta la Siria settentrionale. La guerra, per loro, non è ancora finita».

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